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Ebitda da «aggiustare» nelle operazioni di acquisizione

In assenza di riferimenti di prassi comunemente accolti, dal Cndcec arriva un modello di calcolo con gli aggiustamenti in sede negoziale per il cosiddetto indicatore «normalizzato»

Oltre alla posizione finanziaria netta (si veda l’articolo di Nt+ Fisco del 26 febbraio), l’altro principale indicatore per valutare le performance aziendali e per calcolare il valore delle aziende è rappresentato dall’Ebitda, acronimo di «earnings before interests taxes, depreciation and amortization».

In chiusura dei bilanci 2023, è sicuramente utile verificare questa grandezza e la sua evoluzione. Non includendo alcune rilevanti componenti di costo non monetarie, come gli ammortamenti, l’Ebitda è infatti un margine reddituale che approssima la generazione di cassa derivante dalla gestione operativa.

Diversamente dalla posizione finanziaria netta (Pfn), per il calcolo dell’Ebitda mancano riferimenti di prassi comunemente accolti. Il Consiglio nazionale dei commercialisti (Cndcec), con un documento di ricerca pubblicato nel marzo 2024, ha cercato di fornire un modello di calcolo di tale fondamentale indicatore aziendale, muovendo dallo schema di conto economico previsto dal Codice civile.

Il modello di calcolo

Si procede escludendo dal saldo tra il Valore della produzione (sezione A del conto economico) e i Costi della produzione (sezione B del conto economico) soltanto gli ammortamenti e le svalutazioni delle immobilizzazioni (voci B-10-a e B-10-b e B-10-c).

Tuttavia tale configurazione dell’Ebitda, da adoperare ordinariamente per misurare l’andamento aziendale, va tenuta distinta da quella utilizzata ai fini negoziali – nelle operazioni di mergers and acquisitions (M&A) – per individuare il valore del capitale economico della società «target» secondo un approccio «asset side», quale il metodo dei multipli di mercato, che prevede dapprima il calcolo dell’«enterprise value», per poi determinare il valore dell’equity della società sottraendo la sua Pfn.

Di ciò è ben consapevole il citato documento del Cndcec, che illustra i principali aggiustamenti che nella prassi negoziale vengono operati per calcolare il cosiddetto Ebitda «normalizzato».

In primo luogo devono essere esclusi i canoni di leasing finanziario, in coerenza con il calcolo della Pfn, la quale generalmente include i debiti per leasing (in linea capitale) secondo la rappresentazione basata sul «metodo finanziario». In tal caso anche il canone di leasing deve essere scomposto nella quota capitale, da assimilare agli ammortamenti e quindi da escludere dal calcolo dell’Ebitda, e nella quota interessi, da riclassificare tra gli oneri finanziari.

In sede negoziale vengono poi esclusi quei ricavi o costi che sono «anomali» o non ricorrenti, perché discendenti da operazioni non ripetibili, per cui non sono rappresentativi dell’Ebitda «normalmente» realizzato dall’impresa. Si tratta, ad esempio, delle plusvalenze e minusvalenze realizzate in occasione delle cessioni di rami di attività o di costi sostenuti per operazioni straordinarie, degli indennizzi assicurativi o contrattuali ricevuti o subiti, dei contributi pubblici di natura temporanea, degli oneri legati a contenziosi legali e, in generale, delle sopravvenienze attive o passive di importo rilevante non ripetibili.

Ci sono poi i ricavi e i costi derivanti da operazioni con parti «correlate», che andrebbero esclusi dal calcolo dell’Ebitda qualora siano realizzati a prezzi non in linea con quelli di mercato (elevati compensi degli amministratori, affitti di beni aziendali per canoni non di mercato, eccetera), oppure qualora riguardino costi «personali» dell’imprenditore o dei soci non inerenti alla normale operatività aziendale (spese di rappresentanza di particolare entità, erogazioni liberali, stipendi a famigliari non strategici per l’attività, eccetera).

Il nodo degli accantonamenti

Un tema specifico è quello delle svalutazioni dei crediti compresi nell’attivo circolante, che dovrebbero essere escluse solo per la parte che non rappresenta le «normali» perdite e svalutazioni su crediti che caratterizzano l’attività aziendale e che si traducono quindi in una ricorrente riduzione degli incassi monetari.

Anche per gli accantonamenti per rischi e altri accantonamenti occorre effettuare, in sede negoziale, una specifica analisi con il fine di valutare se si tratta di un accantonamento ricorrente (ad esempio, costi di garanzia ex lege del prodotto) e quindi volto a misurare il probabile futuro esborso di cassa connesso al rischio, o se rappresenta un impegno specifico e non ripetibile, da escludere quindi dall’Ebitda (come i rischi e oneri legati alla soccombenza in una specifica causa legale).

Come per il calcolo della Pfn, la questione più complessa riguarda l’inclusione o meno dell’accantonamento per il trattamento di fine rapporto (Tfr), ma la soluzione, quale essa sia, deve essere coerente rispetto proprio alla determinazione della posizione finanziaria netta, al fine di evitare il cosiddetto «double counting».

Al riguardo il documento del Cndcec suggerisce di escludere, in sede negoziale, l’accantonamento Tfr dal calcolo dell’Ebitda e considerare invece il valore residuo del fondo Tfr a incremento della Pfn alla data di valutazione. La soluzione alternativa è quella di includere, invece, l’accantonamento annuale nella determinazione dell’Ebitda, escludendo però il fondo Tfr dal calcolo della Pfn.

 
Fonte: Il Sole 24ORE

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