I fatti di causa
Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, una società operante nel settore dei servizi di vigilanza era subentrata ad altra società nell’ambito di una procedura di cambio appalto, continuando ad applicare la contrattazione collettiva nazionale di lavoro precedentemente applicata dal precedente datore di lavoro al personale trasferito al nuovo datore di lavoro.
La società subentrata nell’appalto impiegava alle proprie dipendenze tutto il personale proveniente dalla società uscente, oltre ad avvalersi di ulteriore personale già alle proprie dipendenze, il quale affiancava i lavoratori provenienti dal precedente datore di lavoro nell’esecuzione delle opere oggetto del contratto di appalto.
Tuttavia, a seguito del cambio appalto, il personale della nuova appaltatrice e che risultava già in forza in precedenza utilizzava cartellini di riconoscimento, divise da lavoro e mezzi di lavoro diversi da quelli impiegati dal personale proveniente dalla società uscente dall’appalto, adottando in tal modo un’organizzazione del lavoro ritenuta dalle parti diversa rispetto a quella gestita dalla società uscente.
In ragione di tali circostanze, le società coinvolte nel cambio di appalto non configuravano tale operazione alla stregua di un trasferimento d’azienda di cui agli artt. 2112 c.c. e 29, comma terzo, del d.lgs. 276/2003, ritenendo che non ve ne fossero le ragioni sul piano giuridico e fattuale.
A seguito di tale operazione, un lavoratore trasferito alle dipendenze della società subentrata nell’appalto agiva in giudizio dinnanzi il Tribunale di Bologna, sezione lavoro, per far accertare che tale operazione integrava un trasferimento d’azienda ex artt. 2112 c.c. e 29, comma terzo, del d.lgs. 276/2003, e chiedendo condannarsi le società al pagamento in proprio favore di alcune somme a titolo di differenze retributive asseritamente non corrispostegli.
I diversi gradi di giudizio
Il Giudice di primo grado respingeva le domande del ricorrente, il quale impugnava la sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Bologna, sezione lavoro, la quale, in riforma della decisione di prime cure, accertava che tra le due società si era configurato un trasferimento d’azienda, condannandole al pagamento delle somme richieste dal lavoratore.
A sostegno di tale decisione, la Corte territoriale affermava che la norma novellata di cui all’art. 29, comma terzo, del D.Lgs. 276/2003 richiede, ai fini dell’esclusione delle garanzie dettate dall’art. 2112 cod. civ., che l’impresa subentrante nell’appalto presenti elementi di discontinuità, che, tuttavia, nel caso in esame non erano emersi: ciò in quanto, nonostante la reciproca autonomia e l’assenza di collegamenti fra i soggetti uscente e subentrante, una parte della strumentazione tecnica impiegata, nonché i locali, erano stati forniti dalla stazione appaltante, mentre gli unici elementi di novità organizzativa introdotti dalla società subentrante erano consistiti nell’adozione delle nuove divise di lavoro e dei cartellini di riconoscimento.
Su tali basi, la Corte d’Appello riteneva che tra le due società non vi fossero elementi di discontinuità tali da escludere la configurabilità di un trasferimento di azienda, concludendo, pertanto, per la sussistenza di tale fattispecie tra le società coinvolte nel cambio appalto.
Avverso tale decisione esperiva ricorso in Cassazione la società uscente dall’appalto, la quale lamentava, in primo luogo, l’erroneità dell’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello alla norma di cui all’art. 29, comma terzo, del d.lgs. 276/2003, in quanto riteneva che, anche muovendo dalla procedura di infrazione per violazione della direttiva 2001/23/UE avviata nei confronti dell’Italia, l’identità tra due attività economiche andasse valutata in base ai principi elaborati in sede europea, oltre che nazionale, che richiedono la conservazione, tra l’impresa cedente e quella cessionaria, del medesimo “insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”.
Con il secondo motivo di gravame, la ricorrente lamentava l’omesso esame da parte della Corte d’Appello di un elemento decisivo ai fini della decisione della causa, ossia del fatto che la società subentrante nell’appalto aveva fatto ricorso a personale e mezzi di lavoro diversi da quelli precedentemente impiegati dalla società perdente l’appalto, imprimendo così una effettiva “discontinuità” organizzativa rispetto al precedente appaltatore: ciò in quanto i lavoratori provenienti dalla precedente appaltatrice utilizzavano cartellini di riconoscimento e divise da lavoro forniti in via esclusiva dal nuovo appaltatore, che è altresì intervenuto con altri propri dipendenti.
La decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte rigettava il gravame, effettuando un’interessante ricostruzione delle norme e della giurisprudenza italiane e comunitarie che disciplinano la materia.
In particolare, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la novella dell’art. 29, comma terzo, del d.lgs. 276/2003 – introdotta attraverso l’art. 30 della legge n. 122 del 2016, a seguito della procedura di infrazione comunitaria relativa alla elusione della direttiva 2001/23 in materia di trasferimento di azienda – vada interpretata nel senso che, in caso di appalto genuino da parte di un nuovo appaltatore, ossia di un imprenditore che abbia una propria struttura organizzativa ed operativa, opera una sorta di presunzione di operatività dell’art. 2112 c.c., per cui il cambio di appalto costituisce un trasferimento di azienda, a meno che la società subentrante sia caratterizzata da “elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa”.
Secondo la Corte di Cassazione, pertanto, per escludere l’applicazione dell’art. 2112 c.c. nell’ambito di un cambio appalto, l’imprenditore subentrante deve possedere un’autonoma “struttura organizzativa e produttiva”, con assunzione del conseguente rischio di impresa e con significativi elementi di discontinuità rispetto all’organizzazione della società uscente.
Al contrario, l’identità di impresa sussiste se permangono gli stessi mezzi, beni e rapporti giuridici finalizzati all’esercizio stabile e continuativo dell’attività economica in forma di impresa (Cass. n. 17063 del 2015, Cass. n. 1102 del 2013), essendo il mantenimento (non già della struttura organizzativa specifica imposta dall’imprenditore ai diversi fattori di produzione trasferiti, bensì) del nesso funzionale di interdipendenza e complementarità fra tali fattori a costituire l’elemento rilevante per determinare la conservazione dell’identità dell’entità trasferita: pertanto, se vi è mantenimento di un siffatto nesso funzionale tra i vari fattori trasferiti, ciò consente al cessionario di utilizzare questi ultimi, anche se essi sono integrati, dopo il trasferimento, in una nuova diversa struttura organizzativa al fine di continuare un’attività economica identica o analoga, come sancito anche dalla giurisprudenza comunitaria (CGUE 12.2.2009, C-466/07, Klarenberg; conf. CGUE 9.9.2015, C-160/2014, Ferreira).
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente interpretato l’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003 nel senso innanzi precisato, ritenendo di escludere – con riguardo al servizio di vigilanza e portierato fornito al committente – la ricorrenza di elementi di discontinuità nelle modifiche organizzative inserite dal nuovo appaltatore, consistenti nell’adozione delle divise della società e dei cartellini di riconoscimento e tali, pertanto, da non incidere sull’autonomia funzionale del gruppo di lavoratori acquisito.
In ragione di tali elementi, la Suprema Corte ha ritenuto che nel caso di specie si fossero realizzate entrambe le fattispecie del cambio appalto e del trasferimento d’azienda.