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Il credito d’imposta sarà «inesistente» anche senza frode

Si potrà rilevare l’infrazione più grave se manca il presupposto costitutivo

Cambiano ancora le regole sulla distinzione tra crediti non spettanti e inesistenti, e non in senso favorevole al contribuente. Lo schema di decreto attuativo della riforma delle sanzioni rimette infatti in discussione un tema sul quale la giurisprudenza di vertice aveva finalmente raggiunto delle conclusioni stabili e tutto sommato condivisibili.

In proposito, va ricordato che, a legislazione vigente, la distinzione in esame è delineata nell’art. 13, comma 5, Dlgs. 471/1997. In virtù di tale disposizione, il credito è inesistente quando concorre un duplice requisito:

1 manca un elemento costitutivo del presupposto di legge;

2 tale mancanza non è riscontrabile attraverso i controlli automatizzati della dichiarazione.

Dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali, le Sezioni unite della Cassazione — con le sentenze 34419 e 34452 del 2023 — hanno confermato che i due requisiti in esame devono coesistere. Di conseguenza, anche il difetto di elementi fondamentali per la maturazione dell’agevolazione, qualora sia rilevabile con le procedure automatizzate, non determina l’inesistenza del credito. Il pensiero va ai controlli formali di cui all’articolo 36-ter del Dpr 600/1973, che consentono all’ufficio di disconoscere il credito sulla base dei documenti presentati dal contribuente. Alla luce delle verifiche di carattere sostanziale che tale procedura comporta, è evidente che la maggior parte delle contestazioni delle Entrate è rilevabile attraverso di essa. Da notare che non è determinante il fatto che, in concreto, il recupero avvenga con un’ordinaria attività di accertamento (ad esempio, una verifica in azienda), poiché ciò che conta è che il rilievo sia potenzialmente desumibile dal controllo formale. Stando così le cose, è corretto concludere che l’inesistenza del credito è sostanzialmente riservata alle ipotesi di simulazione o di utilizzo di documentazione falsa: in una parola, alle frodi. In altri termini, attualmente la regola è la non spettanza, mentre l’eccezione è l’inesistenza, che in quanto tale deve essere dimostrata dal Fisco.

Lo schema di decreto introduce invece una nuova distinzione che in primo luogo lascia ampi margini di discrezionalità all’interprete e che quindi determinerà, ove confermata, un ennesimo ampio fronte contenzioso.

Si prevede infatti che la non spettanza si verifica quando la richiesta del contribuente è comunque fondata su fatti reali che tuttavia non rispettano, in tutto o in parte, le indicazioni di legge. Mentre viene previsto che l’inesistenza riguarda le ipotesi in cui manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo, senza più alcun riferimento alla riscontrabilità attraverso i controlli automatizzati. È evidente però che in questa nuova definizione è suscettibile di confluire la gran parte dei rilievi dell’ufficio (si pensi ad esempio, al requisito della novità del credito per ricerca e sviluppo) e che la linea di demarcazione tra le due ipotesi diventa molto sfumata. Ma vi è di più. Viene aggiunta una disposizione in base alla quale, laddove si incorra in rappresentazioni fraudolente, la sanzione base (il 70% nella nuova versione) viene aumentata dalla metà al doppio. Se ne ricava indirettamente che il comportamento in frode non verrà più a esaurire l’ipotesi di credito inesistente.

In altri termini, mentre nell’assetto attuale la categoria della inesistenza tende a coincidere con l’utilizzo di documenti falsi da parte dei soggetti passivi, nel modello proposto, la medesima tipologia di violazione si amplia in modo considerevole, al di là delle ipotesi di frode.

Il giudizio sullo schema di decreto, pertanto, non può che essere negativo, oltre che sotto il profilo della tutela del contribuente anche dal lato degli elementi di complicazione che inevitabilmente si genereranno nelle prassi operative.

Fonte: Il Sole 24ORE

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