È opinione condivisa che gli NFT, acronimo di Non fungible token, siano la nuova frontiera delle criptoattività, e che, al tempo stesso, sia alquanto complesso darne una definizione.
L’Ocse, ad esempio, nel suo Crypto-Asset Reporting Framework (CARF), il documento del 2022 che, su mandato del G20, affronta il tema delle cripto-attività con l’intento di rendere trasparente il loro mercato e contrastare l’erosione di base imponibile attraverso l’introduzione di obblighi di segnalazione e di scambio automatico di informazioni, si limita a definire gli NFT come “digitali unici e non fungibili”, il cui uso principale è certificare l’autenticità, l’unicità e la proprietà di un bene digitale e consentire l’accesso a contenuti ed eventi. Considerato che gli NFT sono generalmente scambiati come oggetti da collezione, ma possono essere utilizzati anche per scopi di pagamento o di investimento, l’Ocse raccomanda un approccio “look through”, cioè un’analisi del caso concreto che premi la sostanza rispetto alla forma.
Una disamina più estesa degli NFT, anche dal punto di vista Iva, è offerta dal Comitato Iva che, il 21 febbraio 2023, ha pubblicato il documento denominato “prime riflessioni sui token non fungibili (NFT)” (WP 1060). Trattasi, dunque, di un “work in progress” che ha lo scopo di raggiungere una posizione comune tra gli Stati membri circa il trattamento Iva degli NFT.
Sulla base del presupposto che non esiste una definizione di NFT nella legislazione dell’Ue (anche se il volume degli scambi è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni), in base ad un’analisi descrittiva del fenomeno, l’NFT è definito come un “criptoasset” che rappresenta diritti su un bene sottostante (cosiddetto “asset”), fisico o più comunemente digitale (come un’immagine, un brano musicale, un’opera d’arte, un tweet, eccetera).
In quanto unico e non fungibile, l’NFT si differenzia dalle criptovalute. L’NFT, infatti, è composto da un codice di identificazione che identifica il token e da metadati che si riferiscono allo specifico asset. L’NFT incorpora, poi, un “contratto intelligente” (“smart contract”), cioè un accordo scritto in codice informatico che individua e automatizza alcuni diritti e obblighi dell’acquirente e del venditore. Tale contratto è utilizzato quando l’NFT è creato o venduto (come ad es. le royalties con cui il creatore dell’NFT è remunerato ogni volta che l’NFT è venduto).
Date queste premesse, dal punto di vista dell’Iva, la prima questione che si pone è se l’NFT appartenga al “mondo” dei beni o dei servizi. Il documento prende atto che, secondo l’attuale opinione maggioritaria, gli NFT sono considerati come una particolare tipologia di “servizi elettronici”, in base all’ampia definizione che ne dà l’articolo 7, par. 1, del Regolamento di esecuzione n. 282/2011, secondo cui i “servizi prestati tramite mezzi elettronici comprendono i servizi prestati tramite Internet o una rete elettronica la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata e che comporta un intervento umano minimo, impossibile da garantire in assenza di tecnologie informatiche”.
Tale qualificazione, tuttavia, non può essere generalizzata, in quanto occorre verificare come l’NFT si atteggia nel caso concreto. Sotto questo profilo, quindi, il documento del Comitato Iva sembra accogliere l’approccio pragmatico raccomandato dall’Ocse.
In certi casi, infatti, l’NFT può essere considerato come un titolo di proprietà: è l’ipotesi in cui un NFT si configura come un semplice mezzo o prova del trasferimento del diritto del proprietario a disporre di un bene o servizio, ed è quindi equiparabile a un certificato notarile. Nella fattispecie si applicherebbero le medesime norme Iva applicabili al trasferimento del bene o servizio in questione.
In altri casi, invece, l’NFT sarebbe piuttosto assimilabile ad un voucher monouso o multiuso.
Se, ad esempio, un NFT dà diritto al suo possessore ad un bene o servizio specifico e, al momento in cui ne usufruisce, l’NFT è definitivamente tolto dalla circolazione (in gergo “bruciato”), il suo trasferimento, come il trasferimento di un voucher monouso, deve essere considerato come una cessione di beni o una prestazione di servizi, mentre l’effettiva consegna del bene o prestazione del servizio non è rilevante ai fini Iva.
Se, al contrario, il possessore dell’NFT ha il diritto di scegliere tra diversi beni o servizi, l’NFT potrebbe essere assimilato ad un voucher multiuso e il momento rilevante ai fini Iva sarebbe quello dell’effettiva cessione del bene o prestazione del servizio.
Un NFT potrebbe, inoltre, essere considerato come composto da più elementi, di cui uno principale e l’altro accessorio: un token digitale, appunto, e un bene correlato o asset sottostante. Secondo la massima “accessorium sequitur principale“, all’elemento accessorio si applica il trattamento Iva dell’elemento principale (Cgue, sentenza del 25 febbraio 1999, causa C-349/96).
Se è il bene l’elemento principale, all’NFT dovrebbe, quindi, applicarsi il trattamento Iva del bene.
Se, invece, l’elemento principale è il token, come nell’ipotesi in cui la maggior parte del valore dell’NFT risieda nella sua unicità, cioè nella sua “scarsità”, essendo il token di natura digitale e fornito via Internet con un intervento umano minimo, da punto di vista dell’Iva l’NFT dovrebbe considerarsi un servizio elettronico.
L’NFT potrebbe, poi, configurarsi come un’unica prestazione economica indivisibile che sarebbe artificioso scindere. Ciò potrebbe avvenire esclusivamente nel caso in cui il token e il bene siano strettamente connessi, cioè solo quando il bene abbia natura digitale similmente al token. Pure in questo caso, quindi, l’NFT dovrebbe essere qualificato come un servizio elettronico ai fini Iva.
Il documento del Comitato Iva si sofferma anche ad analizzare il possibile trattamento Iva del conio di un NFT o della sua vendita, concludendo, tuttavia, che l’anonimato che caratterizza il mercato degli NFT rende difficile riconoscere un rapporto sinallagmatico, e costituisce di conseguenza un ostacolo per il riconoscimento della rilevanza ai fini Iva di tali fattispecie.
Oltre che a livello internazionale, il tema del trattamento Iva degli NFT è stato affrontato anche dall’Agenzia delle entrate con la circolare n. 30 del 27 ottobre sul trattamento fiscale delle criptoattività, pubblicata nella sua versione definitiva a seguito dell’apertura di una consultazione pubblica.
L’NFT, in particolare, è definito come un token che rappresenta l’atto di proprietà e il certificato di autenticità scritto su catena di blocchi di un bene, digitale o fisico, che ha la caratteristica di essere un bene unico.
Come evidenziato dal Comitato Iva e anche secondo la circolare, non si può giungere ad una conclusione definitiva circa la natura giuridica degli NFT, che deve essere individuata in base alle circostanze del caso concreto. Tuttavia, la circolare sembra propendere per la tesi che considera l’NFT come composto da due elementi, che assumono “la veste” di elemento principale o accessorio secondo l’interesse delle parti. Se, infatti, le parti sono interessate principalmente al token digitale, l’NFT si configura come un servizio elettronico ai sensi dell’art. 7, par. 1, del Regolamento di esecuzione n. 282 del 2011, sopra citato. Se, invece, le parti sono interessate soprattutto al bene correlato o asset sottostante, occorre distinguere: si applicano le regole Iva proprie dei servizi elettronici se il sottostante ha natura digitale; se, al contrario, il sottostante è un bene materiale, il trasferimento dell’NFT è regolato dalla disciplina Iva di tale asset. La circolare non esclude, comunque, l’applicabilità della disciplina dei voucher (quando ad esempio l’NFT incorpora dei servizi non digitali di cui l’acquirente ha diritto di fruire) e quella dei titoli di legittimazione (quando ad esempio l’NFT conferisce all’acquirente il diritto a partecipare ad una cosiddetta “community”).
Fonte: Agenzia delle Entrate