Cerca
Close this search box.

Rassegna della Cassazione

Malattia professionale e danno differenziale; Licenziamento collettivo e lavoratore disabile; Infortunio sul lavoro e riparto dell'onere...

CONTRATTO A TERMINE E RISOLUZIONE PER MUTUO CONSENSO

Cass. Sez. 
Lav., 11 agosto 2023, n. 24576

Pres. Doronzo; Rel. Leone; Ric. Omissis S.p.A.; Controric. T.A., B.M., C.M.

Rapporto di lavoro – Risoluzione per mutuo consenso – Volontà negoziale (seppur tacita) – Necessità – Mero atteggiamento remissivo del lavoratore – Insufficienza

In tema di rapporto di lavoro a tempo determinato, il fatto che il lavoratore non impugni il contratto e mantenga un atteggiamento meramente remissivo non è sufficiente, in assenza della prova della volontà di porre fine ad ogni rapporto di lavoro, a dimostrare la sussistenza dei presupposti per la risoluzione consensuale.

NOTA

La sentenza in commento affronta la questione dei presupposti per la configurabilità della risoluzione del contratto di lavoro per mutuo consenso.
Nello specifico, a fronte di un’impugnazione giudiziale del contratto a termine, le Società resistenti si erano difese sostenendo che il comportamento inerte tenuto dai lavoratori a seguito della cessazione del contratto a tempo determinato, poi impugnato, dovesse essere interpretato quale espressione, per fatti concludenti, della volontà degli stessi di risolvere il contratto per mutuo consenso, con la conseguenza di dover ritenere carente l’interesse all’accoglimento della domanda di conversione del contratto a tempo indeterminato.
Il Tribunale di Civitavecchia accoglieva tali difese e, valorizzando la circostanza che i lavoratori, poi ricorrenti, avevano accettato dapprima di stipulare un contratto a tempo indeterminato con la società, verso la quale avevano successivamente instaurato il giudizio, e successivamente di passare ad altra società, considerava dimostrata la volontà degli stessi di risolvere il contratto, rigettando le domande azionate di risarcimento del danno e di ricostruzione della carriera.
La Corte d’Appello di Roma riformava tale decisione, non ritenendo sufficiente, per dimostrare la volontà risolutiva del contratto, l’inerzia dei lavoratori e il tempo trascorso tra l’ultimo contratto e l’impugnativa.
La Corte di Cassazione, decidendo sul ricorso promosso dalle società, lo rigetta ribadendo che, come già affermato nei propri precedenti, affinché possa essere integrata la risoluzione per mutuo consenso, è necessaria la dimostrazione di una volontà negoziale, anche se tacita, di porre fine ad ogni rapporto lavorativo.
A tal fine – senza entrare nella valutazione di merito operata dalla Corte territoriale, e in quanto tale sottratta al giudizio di legittimità – la Suprema Corte ricorda che non è sufficiente «un atteggiamento meramente remissivo del lavoratore, che non può essere inteso come acquiescenza se finalizzato a favorire una nuova chiamata o addirittura una possibile stabilizzazione (Cass. n. 20704/2015; 10715/2019).».

 

INFORTUNIO SUL LAVORO, RISCHIO ELETTIVO E RISARCIMENTO DEL DANNO

Cass. Sez. Lav. 4 agosto 2023, n. 23826


Pres. Doronzo; Rel. Cinque; Ric. Omissis S.r.l.; Controric. A.A.


Infortunio sul lavoro – Rischio elettivo – Concorso di colpa del lavoratore – Contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante – Necessità – Responsabilità ex art. 2087 c.c. – Sussistenza – Risarcimento del danno – Quantificazione

In tema di infortuni sul lavoro, il c.d. rischio elettivo, che comporta la responsabilità esclusiva del lavoratore, sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento dannoso e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere.

NOTA
La Corte di Appello di Napoli, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato la responsabilità della società datrice di lavoro riguardo all’infortunio sul lavoro occorso ad un operaio, condannando la stessa al risarcimento del danno non patrimoniale. In particolare, la Corte territoriale, per quanto qui rileva, ha ritenuto che l’azienda non avesse dimostrato di aver adottato tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore e che il lavoratore non avesse consapevolezza che la condotta tenuta costituisse un’operazione anomala e pericolosa.
Circa la liquidazione del danno, corrispondente ad una invalidità permanente del 48%, la Corte ha fatto riferimento «alle Tabelle in uso presso il Tribunale di Milano aggiornate al 2018» e ha quantificato il danno «avuto riguardo alla giovane età del soggetto (23 anni) al momento dell’infortunio».
Avverso tale decisione proponevano ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro e il lavoratore.
A fronte dei motivi di ricorso del datore di lavoro, la Corte di cassazione ha ritenuto che la decisione impugnata fosse conforme alla giurisprudenza in materia di rischio elettivo e di concorso del fatto colposo del lavoratore.
Infatti, «la responsabilità esclusiva del lavoratore per c.d. “rischio elettivo” sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere».
In aggiunta, ha proseguito la Corte, il datore di lavoro è responsabile anche dei danni ascrivibili a negligenza o imprudenza dei dipendenti o alla violazione, da parte degli stessi, di norme antinfortunistiche o di direttive, stante il dovere di proteggerne l’incolumità anche in tali evenienze prevedibili.
Con riferimento, poi, ai motivi di ricorso del lavoratore infortunato, la Suprema Corte ha osservato che:
-in tema di riconoscimento del danno da mora in relazione ad obbligazioni di valore, «l’ulteriore riconoscimento di interessi dal fatto illecito può avvenire solo laddove la liquidazione “non avvenga direttamente con valori monetari riferibili all’epoca della liquidazione”, così come invece accaduto nella specie». In ogni caso, il lavoratore avrebbe dovuto provare anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata fosse inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo;
-in tema di quantificazione del danno, (i) la Corte territoriale ha fatto correttamente riferimento alle tabelle milanesi del 2018, che incorporano anche il danno morale e (ii) per quanto riguarda la mancata ulteriore personalizzazione del danno (ovvero il riconoscimento di una maggiorazione rispetto a quello forfettizzato in base ai criteri tabellari), la stessa spetta solo in caso di condizioni particolari sofferte dalla vittima, in conseguenza delle sue pregresse condizioni o del tipo di attività da essa svolte;
-la Corte d’appello di Napoli ha liquidato le spese legali da corrispondere al lavoratore in misura inferire rispetto ai minimi previsti dal D.M. 55/2014.
Pertanto, alla luce di tutto quanto sopra, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso della società datrice di lavoro e accolto il motivo di ricorso del lavoratore relativo alle spese legali, definendole per tutti e tre i gradi di giudizio.

INFORTUNIO SUL LAVORO E RIPARTO DELL’ONERE DELLA PROVA

Cass. Sez. Lav. ord. 24 agosto 2023, n. 25217

Pres. Esposito; Rel. Riverso; Ric. Omissis; Contror. Omissis

Infortunio sul lavoro – Danno differenziale – Responsabilità ex 2087 c.c. – Natura contrattuale – Colpa del datore di lavoro – Presunzione – Onere probatorio – Riparto

La responsabilità ex art. 2087 cod. civ. è di carattere contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell’art. 1374 cod. civ.) dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, sicché il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c. sull’inadempimento delle obbligazioni. Ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno

NOTA
La Corte d’appello di Firenze, confermando la sentenza del Tribunale, respingeva la domanda della lavoratrice, collaboratrice domestica, escludendo che l’infortunio subito da quest’ultima subito, mentre era intenta, con l’ausilio di una scala, alla rimozione di tende, fosse ascrivibile al datore di lavoro.
La Corte territoriale – premettendo che il lavoratore che agisca per il risarcimento del danno da infortunio sul lavoro deve provare, oltre al fatto costituente l’inadempimento, anche l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inadempimento ed il danno alla salute subito – riteneva che, nel caso di specie, mancasse la prova che fosse stato il datore di lavoro ad impartire alla lavoratrice l’ordine di compiere quell’operazione in sua assenza e che lo scaletto usato non possedesse una base stabile o antiscivolamento.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione lamentando, inter alia, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 cod. civ. atteso che aveva dimostrato l’esistenza del rapporto di lavoro, dell’infortunio e del nesso di causalità tra l’impiego di un determinato strumento di lavoro e il danno subito, sicché doveva essere il datore di lavoro a dimostrare di aver adottato tutte le misure e cautele necessarie ad evitare il danno, dal momento che essa aveva subito l’infortunio durante lo svolgimento delle sue mansioni, con utilizzo di una scala messa a disposizione dal datore di lavoro e senza aver tenuto o alcun comportamento abnorme.
La Corte di cassazione accoglie il ricorso.
La Suprema Corte rammenta, innanzitutto, la natura contrattuale della responsabilità datoriale derivante dalla violazione delle regole dettate in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, e ciò in quanto «il contenuto del contratto di lavoro risulta integrato per legge (ex art 1374 c.c.) dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza che entra così a far parte del sinallagma contrattuale» (da ultimo Corte Cost. n. 15/2023). Sicchè, evidenzia la Corte di cassazione, il datore di lavoro «deve rispondere degli stessi eventi lesivi occorsi al lavoratore sulla base delle regole della responsabilità contrattuale (e quindi in base alla prescrizione decennale, all’inversione dell’onere della prova e nei limiti dei danni prevedibili); e la sua responsabilità può discendere da fatti commissivi o da comportamenti omissivi». In tal contesto, assume valenza decisiva – sottolinea la Suprema Corte – quanto stabilito dall’art. 2087 cod. civ. secondo cui «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Precisa anche la Corte che, qualora la responsabilità fatta valere sia contrattuale, dalla natura dell’illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro) non deriva affatto una responsabilità oggettiva, occorrendo pur sempre l’elemento della colpa, ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza.
La necessità della colpa – evidenzia la Corte di cassazione – va coordinata con il peculiare regime probatorio della responsabilità contrattuale previsto dall’art. 1218 cod. civ. (diverso da quello previsto dall’art. 2043 cod. civ.), per cui nel rapporto di lavoro, a fronte di un infortunio o di una malattia professionale – presunta fino a prova contraria la colpa del datore di lavoro “debitore di sicurezza” – grava su quest’ultimo «l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione, mentre il lavoratore creditore deve provare sia la lesione all’integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa». Non spetta quindi al lavoratore «provare la colpa del datore danneggiante, né individuare le regole violate, né le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l’evento dannoso».
La Corte di cassazione sottolinea poi come l’oggetto sostanziale dell’onere della prova a carico del datore di lavoro sia «particolarmente ampio» posto che esso attiene «al rispetto di tutte le prescrizioni specificamente dettate dalla legge» (valutazione dei rischi, organizzazione dell’apparato di sicurezza, informazione e formazione dei lavoratori, apprestamento dei mezzi, vigilanza, così come delineate dal T.U. n. 81/2008) «oltre che a quelle suggerite dalla esperienza, dall’evoluzione tecnica e dalla specificità del caso concreto» (ex art. 2087 c.c.).
Ciò premesso, la Suprema Corte – ribadendo il principio indicato nella massima sopra riportata, già espresso da Cass. n. 9817 del 14/04/2008 – rileva come la Corte territoriale, nel caso di specie, abbia «all’evidenza» capovolto l’onere della prova della colpa dal momento che la lavoratrice doveva limitarsi a provare «il fatto costituente l’inadempimento», ossia il fatto dell’infortunio sul lavoro, ma non certo la colpa del proprio datore di lavoro, essendo piuttosto onere di quest’ultimo «di provare di aver messo a disposizione della lavoratrice una scala di lavoro idonea, di provare le direttive impartitele anche a carattere inibitorio in relazione alla particolare situazione di fatto ed alla mansione in questione e dimostrare la dovuta vigilanza ed ogni altra accortezza richiesta dalla natura della prestazione (pericolosa in quanto da svolgersi in altezza)».
Infine, quanto all’ampiezza della diligenza richiesta al datore di lavoro in relazione alle circostanze del caso concreto, la Corte di cassazione ricorda che il datore di lavoro rimane responsabile «non soltanto in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma anche per la omessa predisposizione di tutte le misure e cautele idonee a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità, inclusa la mancata adozione di direttive inibitorie nei confronti del lavoratore medesimo» (Cass. n. 15112 del 15/07/2020).
La Suprema Corte, quindi, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla medesima Corte d’appello di Firenze per la prosecuzione della causa di merito, in adesione ai principi esposti.

LICENZIAMENTO COLLETTIVO E LAVORATORE DISABILE

Cass. Sez. Lav. 21 agosto 2023, n. 24906

Pres. Doronzo; Rel. Garri; Ric. S. S.C.; Controric. A.S.B.S.

Licenziamento – Lavoratore disabile – Soppressione dell’intero reparto cui era addetto – Legittimità

Nell’ambito della ristrutturazione aziendale in cui è soppresso un intero reparto cui è addetto anche un lavoratore disabile, non è necessario procedere ad accomodamenti ragionevoli per assicurare la conservazione del posto di lavoro al lavoratore invalido dovendo esclusivamente verificarsi l’effettiva soppressione del reparto cui lo stesso era addetto.


NOTA
La Corte di appello di Trento, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore ordinandone la reintegrazione nel posto di lavoro e condannando la società al risarcimento del danno quantificato in dodici mensilità.
La Corte territoriale riteneva che i criteri di scelta adottati dalla società erano discriminatori verso i lavoratori, con limitata disabilità, che erano stati fatti confluire in un servizio e poi tutti licenziati e le cui mansioni erano state solo in parte soppresse e per il resto redistribuite tra altri lavoratori all’interno dell’organizzazione aziendale.
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per cassazione.
La Suprema Corte accoglie il ricorso, ritenendo viziata la sentenza della Corte territoriale dato che «il Tribunale aveva accertato, ritenendo la circostanza di fatto incontestata, proprio l’avvenuta soppressione del servizio al quale era addetto il lavoratore tenuto conto della sua parziale inidoneità. Aveva ritenuto che fosse stato allegato, e non contestato, che il servizio di pulizia in azienda era stato esternalizzato ad altra società».
Per questo motivo la Suprema Corte accoglie il ricorso e rinvia alla Corte territoriale.


MALATTIA PROFESSIONALE E DANNO DIFFERENZIALE


Cass. Sez. Lav., 4 agosto 2023, n. 23878


Pres. Doronzo; Rel. Cinque; Ric. A.A., B.B., C.C., D.D.; Controric. (Omissis) S.p.A.

Malattia professionale – Responsabilità ex art. 2087 c.c. – Danno differenziale Verifica della applicabilità dell’art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965 – Condizioni

Ai fini dell’accertamento del danno differenziale, è sufficiente che siano dedotte in fatto dal lavoratore circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, sottolineando che anche la violazione delle regole di cui all’art. 2087 c.c., norma di cautela avente carattere generale, è idonea a concretare la responsabilità penale

NOTA
La Corte d’Appello di Napoli confermava la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata che aveva respinto le domande proposte nei confronti di una società, da parte degli eredi di un suo ex dipendente, volte ad ottenere il risarcimento del danno biologico e morale dai medesimi subito in conseguenza del decesso del loro congiunto per mesotelioma polmonare contratto a seguito dello svolgimento di mansioni di elettricista e saldatore di bordo.
La Corte d’Appello, a sostegno della propria decisione, osservava come nessuna indicazione vi fosse stata, da parte degli eredi del lavoratore, rispetto alla dedotta inadeguatezza dell’indennizzo riconosciuto dall’INAIL relativamente ad un danno subìto per effetto di una condotta addebitabile al datore di lavoro.
Per la cassazione della pronuncia hanno proposto ricorso gli eredi del lavoratore.
La Corte di cassazione ha accolto il ricorso ricordando il principio ormai consolidato secondo il quale «le somme eventualmente versate dall’Inail a titolo di indennizzo ex D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicchè (…) il giudice adito, una volta accertato l’inadempimento, dovrà verificare se, in relazione all’evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal D.P.R. n. 1124 del 1965, ed in tal caso, potrà procedere, anche di ufficio, alla verifica dell’applicabilità dell’art. 10 del decreto citato, ossia all’individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (cd. “danni complementari”), da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile».
I giudici di legittimità hanno rilevato quindi l’erroneità della sentenza impugnata sottolineando la rilevanza dei seguenti elementi: a) in materia di azioni di risarcimento del danno, ciò che rileva è che il pregiudizio sia stato prospettato o addirittura sia insito nelle caratteristiche della fattispecie di cui costituisca conseguenza naturale, a prescindere da quale sia stata la sua qualificazione formale; b) la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale è una domanda di carattere onnicomprensivo e ne consegue che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta; c) la richiesta del lavoratore di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivanti dall’inadempimento datoriale, è idonea a fondare un petitum rispetto al quale il giudice dovrà applicare il meccanismo legale previsto dal D.P.R. n. 1124/65, art. 10 anche ex officio, pur dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all’ indennizzo, atteso che, rappresentando il differenziale normalmente un minus rispetto al danno integrale preteso, non può essere considerata incompleta al punto da essere rigettata una domanda in cui si richieda l’intero danno.
Alla luce di tali aspetti, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza rinviando alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
  

Fonte: Il Sole 24 Ore

Condividi questo articolo

Notizie correlate

Desideri maggiori informazioni su bandi, finanziamenti e incentivi per la tua attività?

Parla con un esperto LHEVO

business accelerator