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Società non operative, la Cassazione allarga (finalmente) il set delle prove contrarie

La Cassazione ha recepito le conclusioni del principio di interpretazione n. 2 del Modulo relativo alle società non operative.

La Cassazione ha recepito – finalmente – le conclusioni del principio di interpretazione n. 2 del Modulo 24 Accertamento e Riscossione relativo alle società non operative.

Nel principio si era riportato che alle società (ritenute presuntivamente di comodo) deve essere data la possibilità di fornire la prova dell’effettivo esercizio di un’attività imprenditoriale, o delle ragioni che hanno impedito lo svolgimento dell’attività economica, e non soltanto delle oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi e dei valori minimi. E in questo senso vanno anche gli ultimi approdi giurisprudenziali della Corte di Cassazione. Ad esempio, in questi termini va l’ordinanza n. 13336/2023, ma anche Cassazione 9339/20234946/202126219/2021.

Il principio di interpretazione ha messo in luce che la disciplina tributaria delle società di comodo risulta una sorta di imposizione specifica che colpisce l’abuso della persona giuridica: di fatto, una tassazione dissuasiva della scelta di utilizzare un involucro societario al quale vengono intestati beni non afferenti un’attività economica. Tutto ciò risulta confermato anche dai documenti di prassi delle Entrate (circolari 5/E/2007 e 7/E/2013). 

Le presunzioni relative

In sostanza, l’istituto delle società «di comodo» contempla due presunzioni legali relative, ossia:

1) una prima presunzione, tale per cui le società si considerano non operative se non superano il «test di operatività» (in precedenza anche se risultava «in perdita sistematica»);

2) una seconda presunzione, che trova applicazione soltanto all’avverarsi della prima, in base alla quale si presume che, per le società considerate non operative (prima presunzione), il reddito del periodo d’imposta e il valore della produzione netta Irap non possano essere inferiori all’importo minimo forfettariamente determinato.

Si tratta di presunzioni legali cosiddette «a catena» (o doppie presunzioni, tollerate per quelle «legali»). Il contribuente ritenuto «non operativo» ha, quindi, dapprima l’onere di dare prova di avere compiuto degli atti economici propri di un’attività imprenditoriale (o dell’impossibilità a compierli). Se tale prova viene fornita, non può, evidentemente, trovare applicazione la seconda presunzione, legata alla dichiarazione dei valori minimi.

La prova contraria

Pertanto, quello che va sottolineato è che la prova contraria non può risultare circoscritta alle oggettive situazioni che rendono impossibile il conseguimento di ricavi e dei valori minimi (comma 4-bis dell’articolo 30). Questo perché tali situazioni oggettive vengono ritenute rilevanti dal legislatore soltanto ai fini dell’interpello (facoltativo). 

In definitiva, le oggettive situazioni non limitano i contenuti della prova contraria che le società possono fornire in sede contenziosa. Ed infatti, in quest’ultima sede la società può avanzare ogni contestazione ritenuta utile al fine del convincimento del giudice così da avvalorare il fatto che l’ente, nell’ottica dell’articolo 2247 del Codice civile, svolge un’attività economica (documentabile, ad esempio, dai bilanci) o delle ragioni che hanno impedito lo svolgimento della stessa. Non possono nemmeno escludersi circostanze soggettive, derivanti da valutazioni dell’imprenditore rivelatesi poi errate al fine del conseguimento dei redditi.

Peraltro, la limitazione della prova contraria alle oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei ricavi e dei valori minimi risulterebbe illegittima, in quanto lesiva degli articoli 24 e 53 della Costituzione.

Sicché – come ora avvalorato anche dagli ultimi approdi giurisprudenziali di legittimità – alla società deve essere data la possibilità di dimostrare che non abusa dello “schermo” della persona giuridica. E in questa direzione sembra andare anche la delega fiscale.

Fonte: Il Sole 24Ore

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