La partecipazione dei familiari dell’imprenditore agli utili dell’impresa familiare è possibile «nei limiti dei redditi dichiarati dall’imprenditore». Inoltre «dal punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell’impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito “pro quota” agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d’impresa». È quanto afferma l’ordinanza 8582/2023 della Cassazione (richiamandosi al precedente dell’ordinanza 34222/2019).
Il ruolo del familiare
Ma facciamo un passo indietro. Il legislatore fiscale dà riconoscimento, con l’articolo 5 del Tuir e a determinate condizioni, all’istituto dell’impresa familiare (articolo 230-bis del Codice civile). Si considera familiare quell’impresa in cui il titolare è coadiuvato dal coniuge, dai parenti entro il terzo grado e dagli affini entro il secondo. Questi ultimi partecipano agli utili, e non anche alle perdite (circolare 40/1976 del ministero delle Finanze), proporzionalmente alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Più in particolare, il reddito percepito dal titolare, che è pari al reddito conseguito dall’impresa al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, costituisce un reddito d’impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori costituiscono redditi di puro lavoro e devono essere assoggettati all’imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall’imprenditore (Cassazione 7995 del 2017).
Impresa individuale
Tale impresa, secondo l’ormai costante giurisprudenza della Suprema corte, non è, pertanto, collettiva/associativa ma individuale, essendo il solo imprenditore titolare dell’impresa (in tali termini, si vedano Cassazione 34222/2019, 2472/2017, 874/2005 e risoluzione 78/2015 dell’agenzia delle Entrate).
Dal canto suo, il comma 4 dell’articolo 5, del Tuir ai fini della partecipazione fiscale dei familiari agli utili, richiede che l’attività lavorativa degli stessi venga prestata in modo «continuativo» e «prevalente» e dispone che i «redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare […] proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili».
Ciò posto, ci si è spesso chiesti se l’imputazione proporzionale ai familiari del reddito dell’impresa debba essere limitata al solo reddito risultante dalla dichiarazione presentata dall’imprenditore o anche all’eventuale maggior reddito che l’Amministrazione finanziaria abbia successivamente accertato in capo a quest’ultimo.
I limiti all’imputazione
Sulla questione è intervenuta l’ordinanza 8582/2023 della Cassazione. La conclusione a cui giunge viene desunta dalle parole utilizzate dal legislatore nel comma 4 dell’articolo 5 del Tuir tanto che, in maniera più esplicita, l’ordinanza 34222/2019 la giustifica «alla luce del dato letterale del richiamato articolo 5, commi 4 e 5, del Tuir, che fa espresso riferimento alla dichiarazione dell’imprenditore», con la duplice conseguenza che «deve escludersi che siano riconducibili nel perimetro normativo i redditi che siano emersi a seguito di accertamento condotto nei confronti dell’imprenditore» e che, dal punto di vista fiscale, «soltanto al titolare dell’impresa resta riferibile il reddito oggetto […] di accertamento di maggior reddito a seguito di rettifica della dichiarazione dallo stesso presentata».
Per completezza, si osserva che le conclusioni, sempre alla luce del tenore letterale del comma 4, debbono valere, forse a maggior ragione, nel caso in cui l’imprenditore ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi o, comunque, non ha indicato tale reddito nella dichiarazione, come conferma l’ordinanza 34222 del 2019, evidenziando che non può darsi seguito all’attribuzione pro quota del reddito dell’impresa familiare «sul reddito accertato dall’Ufficio in caso di omessa dichiarazione del titolare».
Fonte: Il Sole 24 ORE