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Srl a ristretta base, sulle presunzioni a carico dei soci la riforma resta ancora un miraggio

Ancora inattuato il criterio della delega fiscale per rivedere o escludere la presunzione giurisprudenziale di distribuzione dei maggiori utili

Il criterio dettato dalla legge delega n. 111/2023 per rivedere, o escludere, la presunzione “giurisprudenziale” di distribuzione dei maggiori utili conseguiti da piccole società a responsabilità limitata a ristretta base partecipativa, sembra destinato, almeno nel breve periodo, a restare inattuato. Trova anche difficoltà ad affermarsi, in senso prevalente rispetto ad una presunzione che ormai viaggia in automatico sulla totalità – o quasi – degli accertamenti a carico di tali società, la nuova regola sull’onere della prova di cui al comma 5-bis dell’art. 7 del decreto legislativo sul processo tributario. Mentre nelle corti di giustizia tributaria di primo e di secondo grado cominciano ad affiorare dubbi sulla possibilità di considerare sempre e comunque provata, su base presuntiva, la distribuzione dei maggiori utili ai soci, la Corte di cassazione, che peraltro sta giudicando su vicende contenziose risalenti nel tempo, non sembra voler assegnare una reale portata innovativa al nuovo criterio di riparto e tende pertanto a ripetere in modo acritico formule della cui persuasività si è detto molto, in senso critico.

Sembra allora utile proporre ancora qualche riflessione su questo tema, che pure registra una sostanziale stasi.

La prima riguarda appunto la “tenuta” della presunzione cosiddetta giurisprudenziale. Il ricorso alle presunzioni semplici, quanto meno nell’accertamento analitico, è previsto dalla normativa regolatrice dei metodi di accertamento nell’Iva e nelle imposte sui redditi, ma è condizionato dalla compresenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui fa menzione l’articolo 2729 del Codice civile. Ciò posto, se è vero che la parte onerata della prova in giudizio può “aiutarsi”, nell’assolvere l’onere, con il ricorso a presunzioni, è anche vero che queste devono essere sorrette dalla presenza di indizi gravi (solidi, diciamo), univocamente indirizzati nella stessa direzione, sufficientemente dettagliati (“precisi”). La nuova regola di riparto non incide dunque sulla possibilità di ricorrere a presunzioni, ma certamente rafforza, rispetto al diritto comune, l’esigenza di una rigorosa coerenza tra fatto da dimostrare e indizi raccolti (che non possono più esaurirsi nel constatare la prossimità dei soci alle casse della società). Lo prevede il dato letterale del comma 5-bis, che impone una prova assolta in modo circostanziato, non contraddittorio, puntuale.

Se si concorda su questa premessa, il silenzio del legislatore delegato sul punto può essere forse meno rilevante di quanto appaia ad una prima impressione; soprattutto se la giurisprudenza si renderà conto di non essere essa stessa l’artefice della presunzione (che è improprio definire giurisprudenziale), dato che, quando massime di questo tipo vengono enunciate, si riferiscono inevitabilmente ad atti di accertamento che hanno già applicato la presunzione di distribuzione. In sostanza, se la giurisprudenza dovesse finalmente rivedere il proprio operato, questo dimostrerebbe certamente un cambio di orientamento, ma non il rinnegare una propria creatura, perché la genesi del meccanismo automatico (una trasparenza oltre le norme) la si deve pur sempre agli uffici (e al silenzio della prassi amministrativa).

Un secondo tema è quello delle conseguenze per il socio. Gli accertamenti ormai si riferiscono prevalentemente a periodi d’imposta nei quali il reddito di capitale tassabile sul socio è interamente imponibile ma con ritenuta a titolo d’imposta del 26%. Il regime sostitutivo comporta che il soggetto passivo diventi il soggetto (presunto) erogatore degli utili, mentre al socio non può essere addebitata alcuna violazione relativa agli obblighi di dichiarazione, trattandosi di provento escluso dal concorso alla base imponibile.

Se gli uffici dell’Agenzia insisteranno, come è probabile, nell’applicare la presunzione di immediata distribuzione dell’utile conseguito in evasione, non potranno più contestare al socio persona fisica non imprenditore l’infedele dichiarazione, né potranno recuperare imposta in applicazione delle aliquote previste in funzione degli scaglioni di competenza. Ma la società non diventerà l’unico soggetto passivo degli atti di accertamento; trattandosi di ipotesi nelle quali essa, quale sostituto, non effettua né la ritenuta, né il versamento dell’importo da trattenere, trova applicazione l’aricolo. 35 Dpr 602/73, in base al quale diventa coobbligato solidale con il sostituto anche il sostituito (nel nostro caso, il socio), il quale è chiamato a rispondere dell’imposta, degli interessi ed anche delle sanzioni amministrative.

E’ da ritenere pertanto che il socio persona fisica continuerà ad essere coinvolto, ma in applicazione della norma che lo costituisce coobbligato solidale rispetto al sostituto d’imposta.

Sembra però da escludere che il socio debba rispondere anche della sanzione amministrativa, perché, come è noto, l’art. 7 Dl 269/2003 prevede che in caso di enti con personalità giuridica sia il solo ente a rispondere del profilo sanzionatorio, e non v’è ragione per disapplicare questa regola a proposito della ritenuta d’imposta sugli utili. Come è noto, la giurisprudenza, salvo casi estremi in cui la società appare come “costruzione di mero artificio”, ritiene che la sanzione amministrativa non sia irrogabile ad alcuna persona fisica, quando sia applicabile – come nel caso della Srl a ristretta base – l’art. 7 Dl 269/2003; e quindi non ritiene soggetti a sanzione né gli amministratori dell’ente, né eventuali altri soggetti che possono ad altro titolo concorrere nell’illecito (sindaci, dipendenti con funzioni decisionali, professionisti). A questo elenco non pare dubbio che debba aggiungersi il socio persona fisica.

Fonte: Il Sole 24ORE

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