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Illeciti fiscali, per i professionisti difficile escludere responsabilità

Non sono solo i vantaggi extra in denaro a far scattare il coinvolgimento del consulente con la società: gli possono essere contestati bili anche i rischi di perdita del cliente o l’acquisizione di altri incarichi

Il professionista risponde a titolo di concorso delle violazioni tributarie commesse dalla società cliente ma deve aver conseguito un beneficio specifico, non limitato al corrispettivo ordinario connesso alle prestazioni professionali rese.

È questo il più recente (e nuovo) orientamento della Corte di Cassazione in tema di concorso del professionista nelle violazioni commesse dai propri clienti, espresso con la sentenza 23229/2024. Secondo la suprema Corte quindi la responsabilità del consulente scatta solo se egli consegue benefici che vadano ben oltre il corrispettivo della propria prestazione. Di conseguenza sarebbe esclusa la responsabilità del professionista terzo in assenza di un proprio interesse (verosimilmente economico).

Con questa sentenza i giudici di legittimità, intervenuti negli ultimi mesi sulla delicata questione, hanno di fatto smentito i principi espressi in precedenza dalla medesima Corte.

La sentenza, infatti, introducendo il criterio dell’ulteriore beneficio ricavabile, oltre al proprio compenso professionale (ipotizzando che sia effettivamente questo il definitivo orientamento della Cassazione), attenua senza dubbio i rischi di responsabilità che, in base alle sentenze di luglio scorso, sembrava di fatto pressoché generalizzata.

Tuttavia, anche questo mutato orientamento, se pedissequamente applicato dall’amministrazione finanziaria, rischia di generare parecchi problemi ai professionisti e in particolare ai consulenti fiscali.

Il ruolo del consulente

Non vi è dubbio infatti che in materia tributaria molte decisioni “interpretative” a fronte di situazioni “borderline” siano assunte dalla società su suggerimento o quanto meno con l’avallo del proprio consulente.

Peraltro si tratta di circostanze, in molti casi, anche agevolmente riscontrabili (mail con i clienti, incontri, rilascio di memo/pareri, eccetera) per cui sotto questo profilo l’amministrazione non avrebbe particolari difficoltà a individuare (anche) nel consulente colui che ha suggerito (o quanto meno avallato) l’operazione/comportamento poi censurato dai verificatori.

Quindi a ben vedere, in concreto, il rischio di situazioni censurabili è abbastanza alto.

Le situazioni a rischio

È evidente infatti che una simile previsione (seppur più garantista rispetto alle precedenti sentenze) non sottintende esclusivamente un immediato “guadagno” finanziario grazie all’illecito commesso dal cliente, ma rischia di essere estesa anche ad altri aspetti di volta in volta individuabili dai verificatori (si pensi ad esempio all’acquisizione di nuova clientela o al rischio concreto di perdere la società cliente).

Appare pertanto anche difficile assumere cautele preventive stante la normativa (e la prassi interpretativa) spesso di difficile comprensione e applicazione, salvo, evidentemente, che il consulente non decida sempre e comunque di suggerire la soluzione fiscale più sfavorevole al proprio cliente.

La delicatezza della questione verrà probabilmente percepita nella sua effettiva portata, allorché l’amministrazione dovesse iniziare ad applicare questa severa interpretazione.

D’altro canto è evidente che non si può invocare l’impunità nelle ipotesi in cui il professionista sia l’ispiratore di condotte palesemente illecite (come emissione/utilizzo di false fatture, predisposizione di situazioni simulate o fraudolenti).

Vi è quindi da auspicare un intervento legislativo che ben circoscriva l’ambito delle responsabilità del professionista anche perché con la riforma delle sanzioni (Dlgs 87/2024) questo principio è stato esteso anche ai soggetti privi di personalità giuridica con il verosimile intento (ora vanificato) di escludere la responsabilità dei terzi rispetto a soggetti differenti dalle società di capitali.

Fonte Il Sole 24ORE

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