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Cash pooling, accordo infragruppo per evitare l’accusa di bancarotta

Solo le relazioni formalizzate consentono il trasferimento di somme tra società. Così l’eventuale crisi d’impresa non fa ipotizzare lo svuotamento delle casse

I pagamenti in favore della società controllante non configurano il reato di bancarotta e possono essere ricondotti all’operatività del contratto di cash pooling, a condizione che i rapporti giuridici ed economici interni al gruppo siano opportunamente formalizzati e puntualmente regolamentati. Ciò comporta che i consigli di amministrazione delle società interessate abbiano deliberato il contenuto dell’accordo, definendone l’oggetto, la durata, i limiti di indebitamento, le aliquote relative agli interessi attivi e passivi e le commissioni applicabili.

È questo, in estrema sintesi, l’orientamento giurisprudenziale di legittimità ormai consolidato in tema di pagamenti infragruppo e gestione di cassa accentrata (cash pooling) rispetto al fallimento e quindi alla possibile condotta distrattiva della società in conseguenza delle risorse finanziarie trasferite all’impresa del gruppo che gestisce la cassa.

La crisi della singola società

Il trasferimento di somme da una società all’altra, in presenza di successiva crisi dell’impresa, potrebbe essere valutato – come avviene non di rado – alla stregua di una sorta di “svuotamento” delle casse aziendali, con tutte le conseguenze penali che possono derivarne. Uno “svuotamento” che evidentemente non è configurabile in presenza della gestione accentrata della finanza aziendale.

Da qui la necessità di dimostrare e allegare che si è effettivamente in presenza di un cash pooling, in ragione del quale sono stati eseguiti i movimenti finanziari, e non di un artifizio per distrarre somme della società.

La giurisprudenza di legittimità

In via generale, secondo la Corte di cassazione, il passaggio di risorse da una società a un’altra, anche facente parte dello stesso gruppo, è distrattivo in presenza di una situazione di conclamata sofferenza della società deprivata, quando non vi sia garanzia di restituzione dei valori trasferiti e al di fuori di un credibile programma di riassestamento del gruppo, rivolto a superare, prioritariamente, le problematiche dell’ente in sofferenza (per tutte: sentenze 22860/2019 e 51473/2019).

L’intera operazione di cash pooling può infatti ritenersi inoffensiva in ragione dell’esistenza di compensazioni comunque realizzate per effetto della partecipazione della singola società apparentemente “depredata” al raggruppamento, secondo la logica dei vantaggi compensativi, essendovi evidenti benefici derivanti dal far parte di un gruppo di imprese legate da un rapporto di natura sinallagmatica (sentenza 37062/2022).

Ne consegue che i pagamenti in favore della controllante o di un’altra società del gruppo non configurano necessariamente il reato di bancarotta e possono essere ricondotti all’operatività del contratto di cash pooling, allorché i rapporti giuridici ed economici interni al gruppo siano formalizzati e puntualmente regolamentati (da ultimo, sentenza 23910/2024)

In tale contesto, i consigli di amministrazione delle società interessate devono aver deliberato il contenuto dell’accordo, definendone l’oggetto, la durata, i limiti di indebitamento, le aliquote relative agli interessi attivi e passivi e le commissioni applicabili (sentenza 39139/2023)

I documenti a supporto

La prova documentale sull’utilizzo effettivo del cash pooling (ad esempio il conto corrente intrasocietario, la regolamentazione dei rapporti giuridici e economici interni al gruppo, eccetera) assume ovviamente particolare rilevanza.

È interessante, in tale contesto, la vicenda da cui è scaturita la recente sentenza 23910/2024 della Cassazione (presidente Guardiano, relatore Renoldi). Dalla lettura della pronuncia, infatti, emerge che la difesa aveva lamentato l’assenza del dolo, non valutata dal giudice di merito, in capo all’imprenditore imputato di bancarotta, nella convinzione che le varie operazioni distrattive rientrassero nel sistema del cash pooling.

Tuttavia, a fronte di tale affermazione, i giudici avevano rilevato che non era stato prodotto alcun documento idoneo a comprovare l’esistenza del negozio di conto corrente intersocietario, né la regolamentazione dei rapporti giuridici e economici interni al gruppo.

Per tale ragione la Suprema corte, alla luce del consolidato orientamento di legittimità, ha respinto il ricorso dell’imprenditore evidenziando che, nella specie, non era stata neanche spiegata la ragione per la quale un soggetto che aveva esercitato, per anni, l’attività di gestione di una pluralità di società e che, dunque, aveva certamente acquisito una non modesta esperienza di imprenditore, potesse essere convinto della liceità di operazioni eseguite senza rispettare le condizioni stabilite dall’ordinamento per escluderne il carattere distrattivo.

Fonte: Il Sole 24ORE

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