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Impianti di videosorveglianza e utilizzo dei relativi dati a fini disciplinari

La fattispecie all'attenzione del Supremo Collegio si colloca tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che devono necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell'art. 4 statuto lavoratori novellato in tutti i suoi aspetti; risultando nella specie autorizzata l'installazione dell'impianto, si pone la questione della utilizzabilità delle informazioni - le riprese visive - così raccolte "a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro" (art. 4, u.c., statuto lavoratori) e, quindi, anche ai fini dell'esercizio dell'azione disciplinare.

Riepilogo dei fatti di causa e della vicenda di merito

La Corte di Appello di Messina, con sentenza difforme della pronuncia di primo grado espressa dal giudice di prime cure nell’ambito di un c.d. “Rito Fornero”, dichiarava la legittimità del licenziamento irrogato ad un lavoratore nel novembre del 2017, basato, previo esperimento della rituale procedura disciplinare, sulla visione di un filmato contenuto in un DVD depositato dalla società sin dalla fase sommaria del giudizio di primo grado, che conteneva le riprese della biglietteria tratte dall’impianto aziendale di videosorveglianza, installato sulla base di un accordo aziendale stipulato nel luglio 2015 (dunque in epoca antecedente alla riforma dell’art. 4 st. lav., operata tramite il D.Lgs. 151/2015, nell’ambito della serie di Decreti Legislativi atti a riformare il mondo del lavoro, nota come “Jobs Act”).

In funzione di quanto emerso, la Corte accertava che le operazioni di cassa registrate erano pienamente corrispondenti ai fatti addebitati nella lettera di contestazione del lavoratore addetto alla biglietteria, ravvisando l’elemento intenzionale nei due episodi contestati, consistenti nel non aver consegnato ai clienti il resto dovuto, senza poi registrare l’esubero della cassa; tali fatti erano considerati idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, in considerazione delle mansioni comportanti maneggio di denaro di cui il lavoratore era adibito.

In ordine alle contestazioni mosse in relazione alla asserita violazione dell’art. 4 l. 300 del 1970, la Corte constatava che l’impianto di controllo era stato installato dalla società a seguito di accordo con le organizzazioni sindacali, il quale prevedeva, quale finalità dichiarata, ‘’l’esigenza di tutela del patrimonio aziendale, dei beni demaniali e la salvaguardia di esigenze di sicurezza”, conformemente a quanto previsto dalla normativa sui controlli a distanza ratione temporis vigente.

Nel caso di specie, le modalità di attuazione delle riprese di videosorveglianza apparivano idonee a garantire il rispetto della dignità e della riservatezza del dipendente, e, dunque, anche del principio di proporzionalità del mezzo utilizzato rispetto allo scopo, atteso che le telecamere erano state posizionate in modo da consentire la visione di un angolo delimitato dell’aria di scambio tra denari e titoli di viaggio, senza possibilità di identificazione visiva immediata degli addetti, possibile solo in un momento successivo ed eventuale.

Per quanto riguardava la violazione della procedura prevista per l’estrazione di copia dei filmati di servizio, ex l. n. 48/2008, la Corte riteneva che la censura sulla autenticità del dato informatico estratto risultava formulata in modo generico, ossia in assenza di qualsiasi riferimento a circostanze concrete idonee ad attestare la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella processuale proveniente dalla riproduzione informatica delle immagini.

Per la cassazione di tale sentenza, proponeva ricorso il lavoratore con quattro motivi, a cui resisteva l’intimata società.

Il giudizio di Cassazione

Con il primo motivo, si denunciava violazione e falsa applicazione dell’art. 4 l. n. 300/70 in relazione ai controlli effettuati dalla società mediante impianti audiovisivi.

Il ricorrente, in particolare, si doleva che il controllo operato dalla società non fosse consentito, in quanto inerente al corretto svolgimento dell’attività lavorativa e che l’accordo stipulato con le rappresentanze sindacali consentiva la visione delle immagini solo in presenza di un reclamo della clientela, nel caso di specie mancante, con conseguente violazione dei principi di correttezza e di buona fede, che devono necessariamente improntare lo stato soggettivo delle parti contraenti del rapporto di lavoro nell’esecuzione delle rispettive e reciproche obbligazioni (artt. 1175, 1375 e 2104 cod. civ.).

Con il secondo motivo di ricorso (art. 360, n. 3 c.p.c.), si denunciava violazione e falsa applicazione della l. 48/2008, in riferimento alla asserita violazione della procedura prevista per l’estrazione di copia dei filmati; si deduceva che tale norma fosse finalisticamente preordinata a disciplinare l’acquisizione della prova in ambiente informatico o telematico, nonché il corretto utilizzo di strumenti di ricerca e valutazione degli elementi probatori.

La censura sul punto all’impugnata sentenza veniva altresì correlata al disposto di cui all’art. 2712 cod. civ., in quanto la critica del ricorrente non si riferiva alla non corrispondenza tra realtà fattuale e quella riprodotta, ma al fatto che non era stata garantita la genuinità delle immagini registrate dalle telecamere e utilizzate quale prova della sussistenza degli addebiti mossi al lavoratore poi licenziato.

Con il terzo motivo si denunciava (art. 360, c. 1, n. 5 cod. proc. civ.) l’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, in relazione alla circostanza che i dati informatici che erano stati prodotti in giudizio, e su cui era fondato il licenziamento, non erano stati realizzati in c.d. ‘’copia forense”.

Con il quarto motivo il ricorrente lamentava infine (art. 360, n. 3 cod. proc. civ.) violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., in merito all’accordo sindacale stipulato dalla società, per aver omesso la Corte d’Appello di considerare che nessun cliente aveva sporto reclamo (come invece previsto dall’accordo ex art. 4 st. lav.), nonché, più genericamente, la non conformità tecnica del sistema di videosorveglianza che aveva registrato le immagini poi scaturite nella procedura disciplinare e nel susseguente licenziamento.

Nessuno dei motivi di ricorso veniva accolto dalla S.C. per le ragioni che seguono.

Quanto al primo motivo, valutato congiuntamente al quarto per profili di reciproca connessione, veniva respinto secondo il seguente iter argomentativo: la fattispecie de qua si collocava, ratione temporis, nell’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 4 Stat. lav. e successive integrazioni, dato che si trattava di impianto visivo dal quale derivava anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori[1].

A fronte della denuncia del ricorrente circa la presunta violazione delle previsioni secondo cui la visione delle immagini videoregistrate, per finalità diverse dalla tutela del patrimonio aziendale, dei beni demaniali e per motivi di sicurezza, potesse avvenire esclusivamente in presenza di reclami o richieste dettagliate, adeguatamente motivate e non anonime da parte dei clienti, ovvero dell’autorità giudiziaria, la S.C. osservava che, dallo stesso testo dell’accordo sindacale, risultava che tale circostanza non ricorresse laddove la finalità della visione delle immagini rientrasse in quella, prevista dalla legge e recepita dall’accordo, di tutela del patrimonio aziendale, la cui nozione veniva interpretata in modo estensivo, nel senso che non comprendeva solo la tutela dei beni aziendali, ma anche della propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico[2].

In definitiva, la tutela del patrimonio aziendale poteva riguardare la difesa datoriale sia da condotte di appropriazione di denaro o di danneggiamento o sottrazione di beni, le quali potevano provenire anche da dipendenti dell’azienda e che giustificavano la medesima protezione giuridicamente garantita da condotte illecite provenienti dall’esterno.

Ai fini del decisum, la S.C. ha ritenuto che, nel caso in esame, lo strumento tecnologico di ripresa della biglietteria fosse installato in modalità non occulte perché autorizzato dall’accordo sindacale, ed era stato impiegato per accertare comportamenti illeciti del dipendente, che non integravano una fattispecie di mero inadempimento nell’esecuzione della prestazione lavorativa, per cui la visione del filmato non richiedeva il dettagliato reclamo della clientela.

Anche il secondo motivo di ricorso non meritava accoglimento, poiché inammissibile nella parte in cui deduceva genericamente la violazione della legge n. 48 del 2008 nel suo complesso, posto che tale norma attiene precipuamente all’ambito dei crimini informatici; peraltro, la parte ricorrente non aveva nemmeno individuato la norma che sanciva, nell’ambito del giudizio civile, l’inutilizzabilità del materiale probatorio contenuto nel DVD.

Altra ragione per cui tale motivo doveva essere ritenuto infondato riguardava la dedotta violazione dell’art. 2712 c.c., perché l’operato della Corte territoriale risultava conforme alla giurisprudenza di legittimità secondo cui:” L’efficacia probatoria delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. era subordinata in ragione della loro formazione al di fuori del processo e senza le garanzie dello stesso che faceva perdere alle riproduzioni stesse la loro qualità di prova e che andava distinto dal c.d. mancato riconoscimento, diretto o indiretto, il quale, invece, non escludeva che il giudice poteva liberamente apprezzare le riproduzioni legittimamente acquisite. Doveva, tuttavia, essere chiaro e doveva avvenire nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla rituale acquisizione delle suddette riproduzioni, venendosi, in caso di riconoscimento tardivo, ad alterare l’iter procedimentale, in base al quale il legislatore intendeva cadenzare il processo in riferimento al contraddittorio”[3].

Il terzo motivo di ricorso era ritenuto inammissibile in quanto teso a replicare censure relative alla violazione della legge n. 48/2008 e perché si denunciava un omesso esame di fatto decisivo al di fuori dei limiti posti dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione con le pedisseque sentenze n. 8053 e 8054 del 2014.

Il motivo in esame non teneva conto che l’allegata violazione della procedura prevista per l’estrazione di copia dei filmati del servizio di videosorveglianza era stata specificatamente presa in considerazione, e che, comunque, non veniva dimostrata la natura decisiva del fatto.

In conclusione, il ricorso veniva respinto nel suo complesso e il licenziamento veniva giudicato come legittimo.

Fonte: Il Sole 24ORE

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