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Jobs act, l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2

L'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, in ragione dell'ingiustificata disparità di trattamento tra un licenziamento per giusta causa e un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, entrambi connotati da insussistenza del fatto materiale

La questione giuridica sottesa

Il Tribunale di Ravenna, Sezione Lavoro, chiamato a decidere in merito all’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo di oggettivo di un lavoratore assunto presso una società con più di 15 dipendenti, a fronte delle sollevate questioni di illegittimità costituzione, rimetteva alla Corta Costituzionale chiedendo di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede l’applicabilità del comma 2 “anche in relazione al licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO

D.Lgs. n. 23 del 2015
Artt. 3, 4, 24, 35 e 41 Cost.

La pronuncia della Corte Costituzionale

Con l’entrata in vigore della riforma del lavoro, nel noto 7 marzo 2015, le domande in punto di legittimità del D.lgs. n. 23 del 2015 hanno animato i dibattiti dottrinali e giurisprudenziali sin dalla fase prodromica di redazione dello stesso e, nel tempo, la Corte costituzionale si è a più riprese pronunciata.

La Corte costituzionale, con la sentenza in commento, ha finalmente pronunciato quell’illegittimità la cui statuizione era ormai nell’aria da molti mesi (per non dire anni) e che tutti gli addetti ai lavori stavano attendendo, proseguendo nella propria opera di smantellamento del “Jobs Act”.

Già con la sentenza n. 93/2021 del 7 maggio 2021, la Corte costituzionale affermava l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del Jobs Act, nella parte in cui cristallizzava l’ammontare dell’indennità in un importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. Secondo la Consulta, quindi, non era condivisibile – nella determinazione dell’indennità da corrispondere al lavoratore licenziato – la previsione di una indennità parametrata ex ante, in maniera rigida e correlata esclusivamente all’anzianità di servizio del dipendente, ancor più nei casi in cui quest’ultima era modesta. Infatti, tale parametro normativo si poneva in contrasto (i) con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, non rappresentando «una adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente (o comunque in violazione di legge)» e non garantendo neppure «un adeguato ristoro al pregiudizio concretamente arrecato» e (ii) con gli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., in quanto «un criterio di commisurazione dell’indennità automaticamente legato all’anzianità di servizio» pregiudicava l’interesse del lavoratore a non essere licenziato ingiustamente.

In particolare, nell’ultimo anno, la Consulta è intervenuta in maniera netta, ritenendo incostituzionali la maggior parte delle disposizioni contenute nel D.lgs. n. 23/2015.

Già con la sentenza n. 22, depositata il 22 febbraio 2024, la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, primo comma, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alla parola «espressamente». Tale disposizione, quindi, è stata ritenuta illegittima nella misura in cui confinava la tutela reintegratoria alle sole ipotesi di nullità del licenziamento di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), sancite “espressamente” dalla legge.

Con la sentenza n. 128, depositata il 16 luglio 2024, la Corte Costituzionale è intervenuta in maniera ancor più dirompente, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, nella misura in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (cd. repêchage).

La Consulta ha accolto le questioni sollevate dal Tribunale di Ravenna, il quale dubitava della legittimità costituzionale di una disposizione che esclude la tutela reintegratoria – nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – nell’ipotesi in cui il Giudice avesse accertato l’insussistenza del fatto materiale sotteso al licenziamento stesso.

In particolare, la diversità di disciplina tra il caso di licenziamento per motivo soggettivo e per motivo oggettivo, entrambi fondati su fatti insussistenti, appare ingiustamente discriminatoria, in quanto l’accertata insussistenza di uno degli elementi che ne compongono il fatto costitutivo li renderebbe due fenomeni identici o, se non altro, assolutamente omogenei.

In buona sostanza, secondo quanto sostenuto dal Tribunale di Ravenna, la violazione dell’art. 3 Cost. risiederebbe anche nell’irragionevole disparità di conseguenze sanzionatorie e di tutela per un fatto illegittimo e illecito, derivanti dalla mera qualificazione giuridica utilizzata, tra l’altro, dal datore di lavoro concedendogli la possibilità di impedire la reintegrazione (altrimenti dovuta) semplicemente costruendo ad hoc un motivo di licenziamento basato su un fatto materiale inesistente. Il tutto senza dare rilievo alla realtà quale risultante dagli accertamenti processuali compiuti dal Giudice da cui dovrebbe derivare la determinazione della tutela spettante. Da ciò discenderebbe un diverso trattamento sanzionatorio per due ipotesi di licenziamento analogamente fondate su di un presupposto inesistente, in aperta violazione con l’art. 24 Cost.

La Consulta ribadisce che la legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo resta anche condizionata alla dimostrata impossibilità di collocare il dipendente da licenziare all’interno dell’organico aziendale, anche con mansioni diverse (cosiddetto repêchage) e, sebbene non costituisca un requisito espresso a livello normativo, è stato elaborato dalla giurisprudenza sulla base del principio generale secondo cui il recesso datoriale deve rappresentare sempre una scelta necessitata, trovando giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro, che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale (ex multis, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanze 30 gennaio 2024, n. 2739 e 13 novembre 2023, n. 31561, nonché Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 24 settembre 2019, n. 23789).

Le considerazioni in diritto della Corte costituzionale si soffermano in particolare sulla motivazione (i.e. la causa) del licenziamento. In particolare, salvo le ipotesi tassativamente indicate dalla legge, il licenziamento non può essere acausale, cioè ad nutum, ovvero sprovvisto di motivazione, ma deve fondarsi su una “giusta causa” o su un “giustificato motivo”. Nel primo caso si fanno riferimento a quelle inadempienze che non consentano, nemmeno provvisoriamente, la prosecuzione del rapporto di lavoro; nel secondo caso, invece, rientrano tutti i notevoli inadempimenti dagli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro (in caso di giustificato motivo soggettivo) ovvero in ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (in caso di giustificato motivo oggettivo).

Pertanto, se è assente una giusta causa o un giustificato motivo, il licenziamento viola la regola generale della causalità del recesso.

Con riferimento alle conseguenze del recesso, già con la riforma Fornero (l. 92/2021), il legislatore ha deciso di abbandonare il criterio di una tutela reintegratoria generalizzata, limitando la tutela reintegratoria piena (ovvero reintegrazione nel posto di lavoro e, a titolo di risarcimento, le retribuzioni spettanti dal giorno dell’intimato illegittimo licenziamento alla ripresa in servizio) ai casi di licenziamento nullo o discriminatorio e la tutela reintegratoria attenuata (reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento entro un limite massimo di 24 mensilità retributive) in caso di licenziamento fondato su un fatto insussistente. Negli altri casi, la tutela è esclusivamente indennitaria. Tale prospettazione è stata riproposta anche all’interno del Jobs Act, riducendo però l’area di operatività della tutela reintegratoria. Si continuava a prevedere la reintegrazione piena solo per i casi di nullità espressamente previsti dalla legge (anche se, come già indicato, è stata ritenuta incostituzionale l’espressione “espressamente” e quindi la reintegrazione piena è applicabile in tutti i casi di nullità) e in caso di licenziamento discriminatorio, mentre per i casi di giusta causa o di giustificato motivo abbiamo assistito ad un restringimento dell’area della tutela reintegratoria attenuata, esclusivamente ai casi di “insussistenza del fatto materiale”. La modifica più incisiva riguardava, tuttavia, i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per i quali la reintegrazione attenuata è stata esclusa del tutto, conservando la sola tutela indennitaria. Pertanto, ciò demarca una profonda differenza nel regime applicabile ai lavoratori assunti primo o dopo il 7 marzo 2015.

Come noto, il fatto materiale si potrebbe definire come “condotta realizzatasi nella realtà, comprensiva cioè unicamente di azione o omissione, nesso di causalità ed evento” e, di conseguenza, la sua insussistenza comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente.

Seppure la ragione d’impresa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non risulti sindacabile nel merito, il principio della necessaria causalità del recesso datoriale esige che il “fatto materiale”, allegato dal datore di lavoro, sia “sussistente”, sicché la radicale irrilevanza dell’insussistenza del fatto materiale prevista dalla norma censurata determina un difetto di sistematicità che rende irragionevole la differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

La discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento non si può estendere, infatti, fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su un “fatto insussistente”, lo qualifichi come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare.

Ecco, dunque, come un recesso intimato per giustificato motivo oggettivo – pur non sussistendo lo stesso nel suo “elemento materiale” secondo il prudente apprezzamento del giudice – “regredisce a recesso senza giusta causa” – usando le parole della Corte – e ciò indipendentemente dalla formale qualificazione che ne dia il datore di lavoro in sede di licenziamento.

In tal senso, la Corte di Cassazione afferma espressamente che “Il fatto insussistente è neutro e la differenziazione secondo la qualificazione che ne dà il datore di lavoro è artificiosa” e, a conferma di ciò, la sentenza in commento richiama la già nota sentenza di Cassazione n. 59 del 2021 la quale aveva già evidenziato il connaturato contrasto tra la possibilità di gradare le conseguenze di singole fattispecie di licenziamento con il principio di “necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro” con gli articoli 4 e 35 della Costituzione.

Ecco il punto nodale su cui si concentra la Corte Costituzionale, ossia l’assoluta incostituzionalità di una disposizione che arroga al datore di lavoro la facoltà di “individuare le conseguenze” della tutela che verrà riconosciuta quale conseguenza dell’eventuale dichiarazione di illegittimità del licenziamento.

E proprio in tal senso, la Corte Costituzionale chiarisce “La conseguenza, in termini di garanzia per il lavoratore illegittimamente licenziato, non può che essere la stessa: la tutela reintegratoria attenuata prevista per l’ipotesi del licenziamento che si fondi su un “fatto materiale insussistente”, qualificato dal datore di lavoro come rilevante sul piano disciplinare”.

E, ancora, la sentenza in commento sottolinea l’incostituzionalità della norma riferendosi alla stessa quale “falla nella disciplina complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve avere, nel suo complesso, un sufficiente grado di dissuasività delle ipotesi più gravi di licenziamento” e continua precisando che “la prevista tutela reintegratoria nei casi più gravi di licenziamento (quello nullo, quello discriminatorio, quello disciplinare ondato su un fatto materiale insussistente) risulta fortemente indebolita in quanto aggredibile ad libitum dal datore di lavoro, seppur a fronte del “costo” della compensazione indennitaria”.

Infatti, anche alla luce dell’importanza riconosciuta dalla stessa Costituzione al diritto al lavoro, ogni sua erosione deve essere considerata, a mente della Corte, come idonea ad “offendere la dignità del lavoratore….quando non sussiste il fatto materiale allegato dal datore di lavoro a suo fondamento, quale che sia la qualificazione che ne dia il datore di lavoro, sia quella di ragione di impresa sia quella di addebito disciplinare”.

La Corte costituzionale, in maniera estremamente chiara e decisa, qualifica il licenziamento fondato su un fatto insussistente come “pretestuoso (senza causa), che si colloca a confine con il licenziamento discriminatorio” e idoneo – prosegue la Corte – “a celare, nella realtà dei casi, una discriminazione”. 

Nel mettere a confronto il licenziamento per motivo discriminatorio (più grave) ed il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (fondato su un fatto materiale insussistente), la stessa Corte afferma che, ove il lavoratore non fornisce prova della ragione discriminatoria celata dal nomen di g.m.o., non è comunque giustificabile che “la tutela degradi a quella unicamente indennitaria per il solo fatto che il datore di lavoro qualifichi il fatto materiale insussistente come (apparente) ragione d’impresa e quindi come (asserito) motivo economico di licenziamento”.

Ancora la sussistenza del fatto materiale sotteso al licenziamento non è comunque sufficiente, a mente della Consulta, per poter ritenere ex se il licenziamento intimato per g.m.o. giustificato e, dunque, legittimo. Infatti, richiamando la natura di extrema ratio del provvedimento espulsivo del lavoratore, la Corte statuisce a chiare lettere che il licenziamento si configura comunque come illegittimo ove vi sia la possibilità (non contemplata dal datore di lavoro) di ricollocare il dipendente nell’organico aziendale. In tal caso “il fatto materiale, allegato come ragione d’impresa, sussiste ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda”

È dunque necessario tenere distinta l’ipotesi in cui il licenziamento per g.m.o. sia fondato su di un fatto materiale del tutto inesistente e la cui disciplina ha erroneamente ridotto la portata della tutela reale dalla diversa ipotesi in cui, pur essendo sussistente la ragione addotta al momento del licenziamento, il datore di lavoro non abbia adempiuto al proprio obbligo di repêchage. Sul punto la Consulta precisa che in tal caso “né si riproduce il vizio di legittimità costituzionale, del quale si è finora argomentato, proprio perché il licenziamento è comunque fondato su un “fatto sussistente”, ancorché il recesso datoriale sia poi illegittimo sotto un diverso profilo (quello della verificata ricollocabilità del lavoratore). la tutela allora è quella solo indennitaria di cui al comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. 23 del 2015″.

Pertanto, il vizio di illegittimità costituzionale non si ravvede qualora il fatto materiale, allegato come ragione d’impresa, sussista sì, ma non giustifichi il licenziamento, a fronte della possibilità di reimpiegare il dipendente all’interno dell’azienda. Ne consegue che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata deve tener fuori la possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa, non diversamente da come la valutazione di proporzionalità del licenziamento alla colpa del lavoratore è stata tenuta fuori dal licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente.

Ed ecco la chiosa che tutti ormai da anni attendevamo – condividendone o meno il principio – ossia la dichiarazione di “illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. . 23 del 2015, nella parte in cui non prevede che si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranee ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore”.

Riflessioni conclusive

Per quanto tanto attesa, la pronuncia in commento si rivela essere – già a poche ora dalla sua pubblicazione – e si intuisce continuerà ad essere fonte di riflessioni e discussioni, in particolare per tutti quegli operatori del mercato che quotidianamente affrontano le tematiche connesse alla gestione del personale per conto di società nazionali ed internazionali, che hanno sempre trovato – per così dire – un porto più o meno sicuro nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La vera portata della sentenza de qua sarà destinata a manifestarsi nei mesi e negli anni a venire, poiché, se lato dipendente vi sarà indubbiamente una tutela più forte, le decisioni del datore di lavoro dovranno essere ancor più soppesate e ragionate, a fronte del rischio per lo stesso di incorrere in una pronuncia sfavorevole, che comporti non più solo una sanzione economica, ma anche e soprattutto la reintegrazione del dipendente, reintegrazione che si potrebbe scontrare con le esigenze e le dinamiche aziendali che lo hanno determinato.

 
Fonte: Il Sole 24ORE

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