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Amministrazione di sostegno, arriva la stretta della Cassazione

Per la Suprema corte, ordinanza n. 14689 depositata oggi, la condotta non collaborativa non può, di per sé, costituire un indizio della menomazione della salute, fisica o psichica. L’ambito dei poteri dell’Ads deve sempre essere proporzionato alle difficoltà del beneficiario

La Cassazione, ordinanza n. 14689 depositata oggi, opera una stretta sui casi in cui è possibile ricorrere all’amministrazione di sostegno: non ogni comportamento “apparentemente anomalo” può dar luogo alla misura, potendo ben essere una espressione caratteriale, così come l’atteggiamento “non collaborativo” da parte del possibile “beneficiario” che si sottrae alle visite mediche, non può di per sé essere un elemento sufficiente per giustificarne l’adozione.

La Prima sezione civile ha così accolto il ricorso di una donna contro il decreto della Corte di appello di conferma della nomina di un Ads da parte del giudice tutelare. Nelle motivazioni del provvedimento, adottato su impulso dei parenti, il fatto che “viveva sola in immobile locato, nonostante fosse proprietaria di diversi immobili; era andata in pensione a causa di difficoltà psichiche; per un certo tempo, sarebbe stata in cura presso un centro di salute mentale; aveva tenuto comportamenti rischiosi anche per la sua salute, come trascorrere la notte in strada, dormendo su una panchina; non aveva dimostrato di saper gestire le sue risorse economiche e diffidenza sia nei confronti degli assistenti sociali, che del c.t.u. nominato, rifiutando di farsi visitare”.

In particolare, per il giudice di secondo grado proprio il rifiuto di sottoporsi alla Ctu “costituiva argomento di prova, sintomo dell’incapacità di percepire l’importanza degli atti istruttori ai quali la stessa reclamante era stata chiamata doverosamente a collaborare nel suo esclusivo interesse”.

L’amministratore era stato scelto al di fuori della famiglia viste le evidenti tensioni. Secondo la ricorrente, infatti, i promotori della misura “erano mossi da interessi personali”.

Per la Suprema corte la decisione si è basata su “alcune forme di disagio prive, di per sé, di una sufficiente valenza in ordine ai presupposti dell’amministratore di sostegno”. La Corte d’appello “non ha infatti chiaramente statuito riguardo al fatto che la ricorrente fosse persona priva, in tutto o in parte, di autonomia per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica””, limitandosi a riferire di un “non chiaro trattamento (somministrato da privati sin dall’età di 20 anni) e relativo a un quadro clinico di disturbo istrionico di personalità”, senza però chiarire in nessun modo “se le patologie menzionate avessero determinato una tale menomazione, fisica o psichica, tal da rendere necessario disporre – in contrasto con la volontà della persona – la misura”. E in maniera tale poi “da giustificare l’ampiezza di poteri conferiti all’amministratore, comprensivi della possibilità di riscuotere la pensione della medesima beneficiaria della misura”.

Né, prosegue la decisione, la condotta non collaborativa della ricorrente può lasciar presumere una menomazione o difficoltà di vita significativa tale da porla nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi. Tantomeno, “tale condotta oppositiva esclude che la ricorrente sia in realtà una persona lucida, per quanto conducente una forma di vita apparentemente inconsueta, non potendosi escludere che tali anomalie siano da considerare la manifestazione di asprezze o forme caratteriali, seppure esacerbate dall’età della ricorrente”.

La decisione, dunque, prosegue la decisione, appare piuttosto il frutto di “un’opzione previsionale calibrata sull’ipotesi di una condotta futura della ricorrente, non sorretta da chiari ed univoci accertamenti clinici e diagnostici”.

Inoltre, il divieto di riscuotere la pensione, “rende palese la sproporzione tra il potere conferito all’amministratore di sostegno e le effettive condizioni di salute della ricorrente, come risultanti dalle motivazioni della Corte d’appello”.

Mentre la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, impone che l’accertamento dei presupposti di legge sia compiuto “in maniera specifica e focalizzata rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario ed anche rispetto all’incidenza di tali condizioni sulla capacità del medesimo di provvedere ai propri interessi, perimetrando i poteri gestori dell’amministratore in termini direttamente proporzionati ad entrambi i menzionati elementi”

E l’eventuale opposizione del beneficiario, soprattutto laddove la disabilità si palesi solo di tipo fisico, “deve essere opportunamente considerata, così come il ricorso a possibili strumenti alternativi dallo stesso proposti, ove prospettati con sufficiente specificità e concretezza”. (Cass., n. 10483/22).

Da qui l’affermazione dei seguenti principi di diritto: “Ai fini della nomina dell’amministratore di sostegno, la condotta non collaborativa del soggetto beneficiario della misura non può, di per sé, costituire un indizio significativo della menomazione della salute, fisica o psichica, in mancanza di accertamenti clinici certi ed univoci”.

“L’ambito dei poteri da conferire all’amministratore di sostegno deve rispondere alle specifiche finalità di tutela del soggetto amministrato e non può prescindere da risultanze espressive di un chiaro e significativo stato di menomazione o difficoltà della persona che s’ipotizza bisognevole di tutela”.

 
Fonte: Il Sole 24ORE

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