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Crediti ritenuti inesistenti dal Fisco: l’impresa deve provare le sue ragioni

La nuova norma non addossa tutto sull’ufficio, resta necessario provare l’eccezione. Secondo i giudici non erano stati forniti elementi sufficienti per bloccare il recupero

Se l’ufficio provvede al recupero di alcuni crediti ritenuti inesistenti, documentando l’esistenza di una frode, tocca al contribuente provare che tali crediti non erano fittizi e smentire la ricostruzione dei fatti operata dal Fisco. Il nuovo comma 5-bis dell’articolo 7 del Dlgs n. 546/1992, in base al quale gli uffici devono provare le violazioni contestate con l’atto impugnato, non stravolge infatti l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova e non addossa tutto l’onere probatorio all’amministrazione. Lo affermano i giudici della Cgt dell’Abruzzo con la sentenza n. 1/2/2024 del 2 gennaio scorso.

La vicenda

Nel caso esaminato, l’ufficio provvedeva al recupero di alcune imposte compensate con crediti ritenuti inesistenti. Il provvedimento veniva impugnato dal contribuente che produceva in giudizio un contratto di accollo.

Il giudice di primo grado respingeva tuttavia il ricorso affermando che, in base all’articolo 2697 del Codice civile, l’onere di provare l’esistenza dei crediti, trattandosi di fatti estintivi della pretesa fiscale, gravasse sul contribuente e che tale prova non era stata fornita. Il contribuente ricorreva in appello eccependo, tra l’altro, la violazione dell’articolo 7, comma 5-bis citato.

Il ricorso è stato respinto anche in appello. I giudici hanno ricordato in primis che il principale motivo di ricorso riguardava l’onere della prova (dell’esistenza dei crediti) che i giudici di primo grado avevano ritenuto gravasse sul contribuente che non lo aveva assolto.

In sede di appello, invece, il contribuente aveva eccepito che tale onere fosse stato superato dal nuovo comma 5-bis, dell’articolo 7 del Dlgs n. 546/1992 (introdotto dalla legge n. 130/2022 ed in vigore dal 16 settembre 2022) che addossa agli uffici l’onere della prova. Tuttavia, quanto sostenuto dal contribuente non ha convinto nemmeno i giudici di appello.

La decisione

Infatti, la disposizione più recente non modifica l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova, ma si limita solo ad affermare che è l’ufficio a dover provare le ragioni oggettive dell’accertamento, senza però giungere ad addossare ogni onere probatorio all’agenzia delle Entrate. Tale ordinaria ripartizione della prova resta ancorata ai principi previsti dall’articolo 2697 del Codice civile che è applicabile al processo tributario ed in base al quale chi vuol fare valere un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento e chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti (in questo caso il contribuente) deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda (si veda la sentenza della Corte di cassazione n. 2746/2024).

Nel caso specifico, tuttavia, il contribuente, a detta dei giudici, non aveva fornito alcuna prova dell’esistenza dei crediti. Al contrario, per i giudici tale onere era stato assolto in modo specifico ed in senso contrario dall’ufficio che attraverso i vari avvisi di accertamento emessi a carico delle società accollanti e divenuti definitivi, aveva evidenziato l’esistenza di una frode carosello fondata sull’emissione di fatture per operazioni inesistenti.

Fonte: Il Sole 24ORE

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