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Cessione intra Ue, valida anche la prova ricavata da fatti secondari

La Cassazione conferma l’orientamento unionale per cui la non imponibilità Iva può essere provata anche da documenti diversi dal ddt.

La cessione di beni intraUe è non imponibile da Iva solo quando vi sia prova che il potere di disporre del bene come proprietario sia stato trasmesso all’acquirente; tale prova si raggiunge nel momento in cui il venditore provi che tale bene sia stato spedito o trasportato in un altro Stato membro e che, in seguito a tale spedizione o trasporto, detto bene abbia lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro di cessione (in tal senso si richiamano le pronunce della Corte di Giustizia Ue 26 luglio 2017, C-386/16, punto 30, 9 febbraio 2017, C-21/16, punto 25, 6 settembre 2012, C-273/11, punto 31, 16 dicembre 2010, C-430/09, punto 29).

In tale contesto si colloca la giurisprudenza di legittimità di matrice domestica, la quale da tempo ritiene che, nell’ambito di una vendita intraUe con clausola “franco fabbrica”, il cedente abbia diritto alla non imponibilità Iva qualora fornisca la prova documentale rappresentativa della effettiva dislocazione della merce nel territorio dello Stato membro di destinazione (Cassazione, 12 febbraio 2019, n. 4045). In particolare, si è ritenuto che questa prova non debba essere data a mezzo di elementi di prova predeterminati, ma possa essere raggiunta anche tramite una prova alternativa ricavata da “fatti secondari”, da cui desumere la presenza delle merci in un territorio diverso dallo Stato di residenza ( Cassazione 30 dicembre 2015, n. 260621 giugno 2023, n. 155522 novembre 2022, n. 323303 marzo 2021, n. 5761, 13 gennaio 2021, n. 308, 12 febbraio 2019, n. 404530 gennaio 2019, n. 25787 novembre 2016, n. 225395 agosto 2016, n. 16433).

Sulla scorta di tali principi, sono state ritenute sufficienti, ad esempio, le ricevute di pagamento – recanti data, timbro ed indicazione del chilometraggio dell’automezzo – sottoscritte dal titolare di una stazione di rifornimento carburante che risulti ubicata al di fuori del territorio di partenza o nel territorio di destinazione delle merci ( Cassazione 28 agosto 2013, n. 19747). A conferma di questo indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, si segnala ora una recentissima ordinanza della sezione tributaria della Suprema Corte ( n. 30889/2023, depositata lo scorso 6 novembre) che – confermando le considerazioni espresse dai giudici di merito nei precedenti gradi di giudizio – ha ritenuto «sufficienti la produzione di fatture accompagnatorie, equiparate ai documenti di trasporto, i pagamenti relativi alle prestazioni realizzate, effettuati con mezzi tracciabili, le dichiarazioni dei terzi clienti e gli elenchi Intrastat, ritenuti elementi idonei ad accertare l’effettiva uscita dal territorio dello Stato della merce e l’attribuzione all’acquirente del potere di disporre dei beni come proprietario».

La Cassazione conferma quindi la tesi che “apre” a documenti diversi dal documento di trasporto ai fini della prova dell’effettiva uscita dei beni dal territorio nazionale.

A conforto della tesi illustrata, gli Ermellini hanno sottolineato che le operazioni intracomunitarie non possono essere equiparate ad operazioni non imponibili ai fini Iva per abbandono del territorio doganale, come nel caso del “visto uscire” ( Cass. 26.5.2023, n. 1485327.12.2018, n. 33483), «caso – si legge nella pronuncia in commento – per il quale si ritengono inidonei documenti che siano di fonte privata, quali le fatture o la documentazione bancaria attestante il pagamento»: si tratta d’altronde di un principio già espresso in precedenza (a tal fine si richiamano Cassazione 18 febbraio 2015, n. 319312 ottobre 2018, n. 2545421 febbraio 2018, n. 4161).

Fonte: Il Sole 24ORE

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