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Transfer pricing, la Commissione punta ad armonizzare le normative degli stati Ue

Con la bozza di direttiva sul transfer pricing, la Commissione europea mira ad armonizzare la normativa nei diversi Paesi dell’UE.

Con la bozza di direttiva sul transfer pricing di recente pubblicazione, la Commissione europea mira ad armonizzare la normativa nei diversi Paesi dell’UE. Il disallineamento tra le best practice dell’Ocse e la loro applicazione da parte degli stati membri è stato infatti fonte negli anni di divergenti interpretazioni e pratiche tra le giurisdizioni. Ciò ha generato un notevole aumento delle contestazioni e delle procedure, oltre che un aumento dei costi per la gestione del Tp.

La direttiva, che passerà ora alla fase di negoziazione tra gli stati membri, dovrà essere approvata all’unanimità prima di divenire parte del corpus normativo unionale ed entrare in vigore, secondo proposta, dal 2026. La promulgazione di una direttiva Tp rappresenta un ulteriore passo per rafforzare il mercato unico attraverso l’uniformità normativa ma inevitabilmente inciderà sulla sovranità degli stati in materia di imposizione diretta.

Le disposizioni potrebbero ampliare notevolmente i poteri dell’Unione, conferendo indirettamente alla Commissione un ruolo di controllo sulle amministrazioni finanziarie nazionali tramite eventuali procedure di infrazione ed alla Corte di giustizia quello di ultimo decisore sull’applicazione a livello domestico. Una applicazione coerente del principio dell’arm’s length nell’Ue potrebbe anche ridurre le preoccupazioni della Commissione sulla concorrenza fiscale aggressiva attraverso le pratiche locali sui prezzi di trasferimento. Con scarso successo, la Commissione aveva già tentato negli ultimi anni di affrontare queste tematiche utilizzando le norme Ue sul divieto degli aiuti di stato nel contesto di tax rulings aventi ad oggetto il Tp.

Le previsioni in materia di imprese associate (articolo 5) e determinazione dell’intervallo di libera concorrenza (articolo 12) risultano particolarmente rilevanti alla luce del contesto normativo italiano. La prima, infatti, introduce una definizione di controllo, basato su una partecipazione superiore al 25 per cento al voto, al capitale o agli utili, inferiore alla soglia del 50 per cento attualmente fissata dall’articolo 2 del Dm 14 maggio 2018. In aggiunta rileverebbero ai fini della valutazione del controllo i voti congiunti e le relazioni familiari, di fatto riprendendo concetti già espressi nella circolare n. 32/1980, che era stata appunto superata con l’introduzione del Dm 2018. In altri termini la platea dei contribuenti soggetti alla normativa Tp potrà allargarsi sensibilmente in futuro.

In materia di intervallo di libera concorrenza, invece, l’attuale formulazione della direttiva appare disallineata con le linee guida Ocse oltre che con il Dm 2018 e la circolare 16E del 2022. In particolare sono due gli aspetti di maggiore attenzione:

– la direttiva considera affidabile il solo intervallo interquartile, mentre le disposizioni OCSE ed il DM2018 riconoscono la possibilità di utilizzare anche l’intero intervallo, a seconda del grado di comparabilità tra operazioni controllate e non controllate. La stessa giurisprudenza italiana ha ampiamente avallato questi concetti. La disposizione è restrittiva considerato che vi possono essere vari casi in cui l’elevata comparabilità giustificherebbe l’adozione dell’intero intervallo (si pensi ad esempio all’uso di comparabili interni)

– eventuali aggiustamenti vanno parametrati alla mediana del campione e non già al valore più prossimo dell’intervallo interquartile senza che tale previsione trovi riscontro immediato nelle best practice di matrice Ocse e contrariamente a quanto previsto dalla Circolare 16E.

Da notare infine che la direttiva recepisce principi Ocse apparentemente consolidati quali ad esempio l’identificazione delle relazioni commerciali o finanziarie, i metodi di Tp e le analisi di comparabilità. Se da un lato il documento nulla sembra aggiungere alla prassi diffusa, dall’altro vincolare principi generalmente accettati ad uno strumento normativo appare controproducente: la rigida procedura di (eventuale) emendamento della direttiva rischia di impedire un rapido allineamento unionale all’evoluzione – ormai rapidissima – delle best practice internazionali, con la conseguenza che eventuali differenze che dovessero generarsi in futuro richiederebbero la produzione da parte della Commissione di una “interpretazione autentica” di detti principi, portando il contribuente finanche a dover interpretare differentemente fattispecie sostanzialmente analoghe ma che riguardino alternativamente controparti europee o extra-europee.

Fonte: Il Sole 24Ore

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