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Sanatoria delle criptoattività: test anticipato di convenienza

Sanatoria delle criptoattività alla prova dei costi: molte le perplessità, necessarie considerazioni sugli oneri connessi alla definizione.

Sanatoria delle criptoattività alla prova dei costi. Sono molte le perplessità, ma qualche considerazione in più va fatta sugli oneri connessi alla definizione.

Soffermandoci soltanto sulle violazioni riferite al monitoraggio fiscale, si ricorda che la regolarizzazione comporta il pagamento di una penalità ridotta allo 0,50% «per ciascun anno del valore delle attività non dichiarate».

Occorre però partire da un problema mai risolto: quali sarebbero le penalità ordinarie in presenza di criptovalute non dichiarate? La norma del Dl 167/1990 àncora le sanzioni all’elemento territoriale (dal 3 al 15% Paesi non black list, dal 6 al 30% Paesi black list). Nel caso di specie si è tuttavia in presenza di fenomeni a-territoriali, che non risultano disciplinati sotto il profilo sanzionatorio nemmeno dopo la legge di Bilancio 2023.

Supponiamo, ad ogni modo, che si faccia riferimento alla penalità meno grave (dal 3 al 15% degli importi non dichiarati), ritenendo che si tratti della sanzione ordinaria, che va raddoppiata solo quando il Fisco provi effettivamente che le attività risultano detenute in un Paese cosiddetto black list.

In questi termini svolgiamo l’esempio delle sanzioni edittali a cui andrebbe incontro un contribuente che ha detenuto criptovalute dal 2018 al 2021, per un valore massimo pari a 100 e che non ha provveduto a dichiararle nel quadro RW (secondo la tesi delle Entrate, perché, in realtà, l’obbligo di legge si avrebbe dal 2023). In questo caso entrano in gioco le regole del cumulo giuridico. In base a quanto dispone il comma 5 dell’articolo 12 del Dlgs 472/1997, in presenza di violazioni della stessa indole commesse in periodi d’imposta diversi «si applica la sanzione base aumentata dalla metà al triplo». Quindi supponendo di applicare la sanzione minima del 3 per cento (per irrogare la penalità massima o misure intermedie, l’ufficio dovrebbe motivarla in base ai criteri ex articolo 7 del Dlgs 472/1997) al valore massimo di 100, si avrebbe che alla sanzione base di 3 si applicherebbe l’aumento della metà (considerando il minimo della sanzione edittale), quindi si arriverebbe a 4,5. Qui la questione è se debba trovare applicazione l’ulteriore aumento da un quarto al doppio, previsto dal comma 1 dell’articolo 12.

Va rilevato che Cassazione (sentenza 11849 del 5 maggio 2023) ha negato – per un caso legato proprio al quadro RW – l’applicazione del suddetto aumento. Così che si arriverebbe all’irrogazione di una sanzione unica per tutti i quattro anni pari a 4,5 (5,625 se si applica l’aumento di un quarto). Detta sanzione risulterebbe poi definibile a un terzo, in base a quanto dispone l’articolo 16 del Dlgs 472/1997. Il fatto è che detta definizione va fatta confrontando i minimi edittali delle «violazioni più gravi relative a ciascun tributo». Qui entra in gioco una “forzatura” del software delle Entrate, segnalata più volte. Infatti, in presenza di violazioni da quadro RW, il software (e quindi l’atto di contestazione) porta a fare il confronto tra la sanzione unica da quadro RW con un’ipotetica sanzione Irpef corrispondente alla stessa penalità da quadro RW che viene però sommata anno per anno. Quasi nessuno se ne accorge, ma in questo modo il costo della definizione prevista dall’articolo 16 del Dlgs 472/1997 viene a risultare più onerosa.

In definitiva, se si applicassero le regole (la legge), in presenza di cripto non dichiarate per più anni, non è detto che la sanatoria prevista dalla legge di Bilancio 2023 risulti poi così conveniente. Senza contare che in futuro – con la riforma – le sanzioni da quadro RW verranno certamente abbassate e che – fondamentalmente – l’obbligo di legge per dichiararle decorre soltanto dal 2023.

Fonte: Il Sole 24Ore

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