Il contribuente che in dichiarazione abbia assoggettato propri redditi a imposta che ritiene non dovuta e provveduto al relativo versamento, in via di autotassazione, può chiederne il rimborso nel termine previsto dall’articolo 38 del Dpr 602/1973. Tale possibilità non è preclusa dalla mancanza di una dichiarazione integrativa. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza 15211/2023.
La decisione
Nell’occasione, i giudici di legittimità hanno cassato la pronuncia della Commissione tributaria regionale per due ordini di ragioni:
1. innanzitutto, perché aveva ritenuto necessario che ai fini dell’istanza di rimborso fosse necessario un errore scusabile del contribuente, a tal fine sovrapponendo il piano del comportamento doloso, che è quello della falsificazione dei dati contabili dell’impresa, a quello relativo alla conseguente errata dichiarazione fiscale;
2. in secondo luogo, in quanto aveva affermato che l’istanza di rimborso fosse preclusa dalla mancanza di una dichiarazione integrativa e che l’assoggettamento ad imposizione di una determinata posta contabile fosse espressione di una volontà del contribuente, violando principi giurisprudenziali ormai consolidati.
I requisiti per il rimborso
In linea più generale, con la pronuncia in commento, la Suprema corte ha ripercorso i principi che governano l’istanza di rimborso, sottolineando che il richiamato articolo 38 del Dpr 602/73 autorizza la presentazione di tale domanda, oltre che in caso di errore materiale, in quello di «inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento».
Secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, tale disposizione opera in maniera indifferenziata in tutti i casi di ripetibilità del versamento indebito, a prescindere dalla riferibilità dell’errore al versamento, all’an o al quantum del tributo (Cassazione nn. 10693/2019, 16617/2015, 4578/2015, 24058/2011 nonché 11987/2006).
Per la Suprema Corte, in particolare, l’importo versato è ripetibile anche, qualora il versamento oggetto del rimborso domandato, consegua ad un comportamento volontario del contribuente, di mancata esposizione delle perdite in dichiarazione (Cassazione n. 10693/2019). Rientra nell’ambito applicativo del citato articolo 38, comma 1, anche il caso di richiesta di rimborso per l’inesistenza fin dall’origine dell’obbligo fiscale (Cassazione n. 8516/2019).
I precedenti
La Cassazione ha inoltre ribadito il principio secondo cui – a differenza di quanto avviene sotto il profilo Iva (in virtù dell’articolo 21, comma 7, del Dpr 633/72) – le norme sulla imposizione diretta, ispirate al principio costituzionale della capacità contributiva, non contemplano ipotesi di responsabilità fiscale oggettiva, indipendente dall’esistenza di un reddito effettivo (in questo senso si vedano Cassazione nn. 23879/2019, 19191/2019 e 27569/2008).
In altre parole: mentre l’Iva è dovuta per l’intero ammontare della fattura, anche se emessa per un’operazione che non si è mai concretizzata, oggetto dell’imposizione diretta non possono essere i ricavi inesistenti risultanti da una contabilità riconosciuta fittizia. I principi che precedono appaiono del resto coerenti con l’affermazione – fatta propria dai giudici di legittimità – secondo cui «la dichiarazione dei redditi non costituisce la fonte dell’obbligo tributario, né produce effetti assimilabili a quelli di una confessione, attesa l’indisponibilità dei diritti e degli obblighi tributari (…), ma rappresenta unicamente un momento essenziale del procedimento di accertamento e riscossione delle imposte sul reddito e non può precludere al contribuente (…) la dimostrazione (…) dell’inesistenza, anche parziale, di presupposti di imposta erroneamente dichiarati» (in tal senso si richiamano Cassazione 25 ottobre 2002, n. 15063, 20 dicembre 2002, n. 18163, 6 luglio 2011, n. 14932 e 6 marzo 2015, n. 4578).
Fonte: Il Sole24Ore