Il ruolo di socio di maggioranza rivestito dal commercialista nella società fa scattare l’incompatibilità con la professione ai fini previdenziali. La qualità rivela, infatti, un interesse tangibile e tutt’altro che remoto alle vicende della compagine. Mentre l’incarico di amministratore è compatibile solo se svolto nell’interesse del terzo che lo ha conferito. La Cassazione (sentenza 26346) accoglie dunque il ricorso della Cassa dei commercialisti che aveva perso sia in primo sia in secondo grado. Alla base della querelle la cancellazione di 16 anni di contribuzione per incompatibilità per le numerose cariche rivestite dall’iscritto in una Srl: socio di maggioranza (55%), presidente e amministratore unico.
Per il tribunale i ruoli non erano in contrasto con la professione perché così aveva stabilito il Consiglio dell’Ordine con una decisione, ad avviso dei giudici di prima istanza, “estensibile” anche alla Cassa.
Un punto sul quale non è d’accordo la Corte d’Appello che, pur respingendo il ricorso della Cassa, ne afferma l’autonomo potere di accertamento rispetto ai Consigli degli Ordini che valutano la compatibilità ai fini dell’iscrizione all’albo.
A dare partita vinta alla Cassa è la Suprema corte. I giudici di legittimità sottolineano le maglie strette per valutare la compatibilità. Sia alla luce delle vecchie norme (Dpr 1067/1953) sia delle nuove (Dlgs 139/2005) l’esercizio dell’attività di impresa va escluso non solo quando è in nome proprio ma anche altrui e a prescindere da abitualità e prevalenza.
Ha sbagliato la Corte territoriale a contestare alla Cassa di aver dato rilievo solo ad una carica formale. Nello specifico, infatti, erano stati svolti ruoli di vertice, da presidente del Cda a quello di legale rappresentante, deputato a manifestare all’esterno la volontà della società di capitali. Non manca un monito della Cassazione che sottolinea come «l’attività di impresa sia oggi foriera d’incompatibilità anche quando non sia abituale e prevalente» per il rischio «di incongrue sovrapposizioni di piani e di alterazione di quelle regole di probità e trasparenza, che sono presidio di un corretto ed efficiente esercizio della professione».
La sentenza di appello è annullata con rinvio perché ha sminuito la rilevanza di attività tutt’altro che collaterali. Per finire la Corte sottolinea che la valutazione dell’incompatibilità non può essere meno stringente sul versante previdenziale, vista la necessità di un impiego oculato delle risorse, nel rispetto del diritto costituzionale di garantire in vecchiaia mezzi adeguati ai lavoratori, e di accordare la tutela ai soli lavoratori che abbiano esercitato in maniera legittima la professione.
Né è utile – precisano i giudici di legittimità – richiamare una prassi applicativa che inquadra le incompatibilità in un regime a maglie più larghe «in quanto unico dato rilevante è il dettato normativo, interpretato alla luce del tenore testuale delle previsioni di legge e della loro oggettiva ragion d’essere».
Fonte: Il Sole 24Ore