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La transizione energetica parla cinese: ecco perché Pechino ha il monopolio nel solare

Nel fotovoltaico il Dragone in meno di vent’anni ha conquistato una posizione di controllo assoluto: il dominio non riguarda solo le materie prime, ma ogni singolo anello della catena di rifornimento, dal silicio al pannello finito

La transizione energetica ormai parla cinese. Al punto che senza Pechino la neutralità climatica rischia di essere un miraggio. Dalle materie prime alla componentistica, la presenza del gigante asiatico nelle filiere green è sempre più pervasiva. E c’è almeno un settore in cui il suo predominio è tale che potrebbe essere troppo tardi per sperare anche solo di incrinarlo: nel solare fotovoltaico la Cina in meno di vent’anni ha conquistato una posizione di controllo vicina al monopolio assoluto, che non riguarda solo le materie prime ma ogni singolo anello della catena di rifornimento, dal silicio al pannello finito. Un presidio che sta rafforzando ulteriormente, proprio mentre in Europa e negli Stati Uniti si moltiplicano gli sforzi per guadagnare una maggiore autosufficienza, con politiche mirate e incentivi – generosissimi al di là dell’Oceano Atlantico – destinati a questo e ad altri settori strategici.

I numeri

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) la Repubblica popolare nel 2022 ha quasi raddoppiato la capacità di produzione di silicio policristallino, materiale usato nella maggior parte dei pannelli solari, in cui era già arrivata a dominare l’offerta globale con una quota del 70 per cento. Ora potrebbe essere vicina al 90%. Nello stesso arco di tempo c’è stato un aumento di capacità del 40-50% negli stabilimenti cinesi che realizzano celle fotovoltaiche e wafer di silicio: “fettine” tagliate dai lingotti di silicio raffinato, che servono anche nei microchip ma che nel solare richiedono un altissimo grado di purezza. In questo segmento Pechino opera già da qualche anno in condizioni di monopolio. Gli altri produttori – un tempo presenti anche in Italia – uno dopo l’altro hanno gettato la spugna

Nel solare è «made in China» addirittura il 97% dei wafer utilizzati nel mondo, stima il dipartimento dell’Energia statunitense, riconoscendo una dipendenza difficilissima da attenuare: oggi come oggi «non c’è alcuna capacità di produzione attiva basata negli Usa né per i lingotti, né per i wafer né per le celle di silicio» e questo deserto «sta già provocando interruzioni nella catena di approvvigionamento».

In Europa siamo in condizioni di poco migliori. In Norvegia (Paese non Ue) sopravvivano infatti un paio di produttori, Norsun e Norwegian Crystal, ma le due società, con una capacità di circa 1 GW, sono dei nani in confronto ai colossi cinesi. E provare a potenziare gli impianti non ha senso, se nel continente mancano clienti (i produttori di celle) e tocca pure farsi arrivare dalla Cina la materia prima: a produrre polisilicio in Europa è rimasta solo la tedesca Wacker Chemie, prima al mondo ancora nel 2019 ma oggi scivolata al quinto posto secondo Bernreuter Research in una Top 10 in cui Pechino occupa ormai ben 7 posizioni, incluse le 4 al vertice (con Tongwei, GCL, Daqo e Xinte). L’americana Hemlock, a lungo regina della classifica in passato, ma oggi orientata più a servire l’industria dei microchip, è finita al nono posto. All’ottavo c’è la sudcoreana OCI (che però produce quasi tutto in Malaysia, per il mercato cinese).

La resa di Europa, Usa e Giappone

In un’epoca che sembra ormai lontana, ma che risale solo all’inizio di questo millennio, a spartirsi il mercato globale erano sette fornitori, attraverso una decina di stabilimenti basati in Europa, Stati Uniti e Giappone. Uno di questi era la Memc, che nel 2011 ha fermato l’attività nella fabbrica italiana di Merano e nel 2015 ha fatto lo stesseo negli Usa.

Oltre Oceano, così come in Europa, alcuni produttori di wafer in silicio si sono “riciclati” nel settore dei microchip. Ma molti altri hanno chiuso i battenti (gli Usa hanno perso l’ultimo fornitore locale nel 2016), messi in ginocchio anche dall’estrema volatilità sperimentata dai prezzi del silicio, ma soprattutto dalla concorrenza low cost dei cinesi, che si stima abbiano investito almeno 50 miliardi di dollari dal 2011 nell’industria del solare, per ottenere enormi economie di scala e integrare il più possibile i diversi anelli della filiera produttiva. Un fenomeno – occorre riconoscerlo – che ha contribuito ad accelerare la diffusione delle rinnovabili nel mondo, abbassando vertiginosamente il costo degli impianti, e che ha reso la Repubblica popolare un campione nello sviluppo delle energie pulite, con progressi ineguagliati nel mondo (benché il Paese bruci tuttora enormi quantità di carbone).

Il rovescio della medaglia è che le filiera del fotovoltaico in Cina è cresciuta – e continua a crescere – in modo così impetuoso da travolgere ogni forma di competizione. Il direttore dell’Aie, Fatih Birol, in una recente intervista al Sole 24 Ore ha sconsigliato di disperdere risorse rincorrendo Pechino nel solare, perché non abbiamo più chance di recuperare. Meglio preoccuparsi di altre sfide, evitando per quanto possibile di replicare la situazione in altre filiere chiave per la decarbonizzazione: le batterie e l’auto elettrica, ma anche l’energia eolica – settore che in Occidente lancia forti segnali di crisi – e l’industria ancora nascente dell’idrogeno.

Oggi chi dice sole dice Cina. E il problema riguarda solo in parte le materie prime: non è come per le terre rare o il litio, per cui possiamo sperare sollievo con l’apertura di nuove miniere o un maggiore tasso di riciclo. Il silicio, elemento più diffuso sulla Terra dopo l’ossigeno, è in effetti diventato appannaggio dei cinesi nelle forme necessarie al fotovoltaico. E ci sono anche problemi etici, un po’ come per il cobalto estratto in Congo, perché oltre metà della produzione cinese proviene dallo Xinjiang dove la minoranza musulmana degli uiguiri è vittima di persecuzioni e probabilmente costretta a lavori forzati anche nella filiera del solare. Per questo motivo gli Usa hanno messo al bando le importazioni da questa regione e l’Europa potrebbe presto seguirne le orme: un fenomeno che sta già spingendo i cinesi ad una rilocalizzazione degli impianti.

Il fatto è che non dipendiamo da Pechino soltanto per il silicio. All’Europa e agli Stati Uniti – che a inizio millennio regnavano ancora incontrastati, insieme al Giappone, nell’energia solare – oggi non restano che poche macerie su cui provare a ricostruire: la capacità di assemblaggio e di installazione degli impianti, più qualche debole presidio nelle attività a monte della filiera, insufficiente ad evitare lo strapotere di Pechino, nemmeno con l’aiuto di sussidi a pioggia. L’unica salvezza potrebbe forse arrivare dal decollo di tecnologie alternative, come il solare a concentrazione, che però al momento rimangono di nicchia.

Crescita senza freni

C’è anche qualche promettente tentativo di riscatto, come la maxi fabbrica di pannelli dell’Enel a Catania, la Gigafactory 3Sun, che punta a una capacità di 3GW entro il 2025. Ma sono bruscolini. La Cina costruisce impianti di taglia almeno tripla e l’anno scorso ha esportato celle per 23,8 GW e wafer per 36,3 GW, con un aumento rispettivamente del 131% e del 61% dal 2021, secondo dati dell’associazione nazionale dei produttori. E la sua “potenza di fuoco” promette di crescere ancora, con uno sviluppo senza freni che ormai sembra sfuggire anche al controllo del governo: l’Aie prevede che la filiera del solare in Cina raddoppierà ancora la capacità entro il 2024 anche se è già ipertrofica, sovradimensionata rispetto all’intera domanda globale. Gli impianti oggi funzionano al 20-40% delle potenzialità e la competizione è diventata feroce anche tra i campioni locali: LONGi – che insieme alle connazionali Tongwei e Aiko Solar domina il mercato mondiale delle celle fotovoltaiche – a fine maggio secondo Bloomberg ha tagliato del 31% i prezzi dei wafer.

Il paradosso delle scorte

L’Europa intanto, dopo aver rinunciato a imporre dazi anti-dumping nel 2013 per paura di ritorsioni, importa sempre più pannelli «made in China», tanto da non riuscire nemmeno a utilizzarli tutti: Rystad Energy stima che nei magazzini del Vecchio continente oggi ci siano scorte per ben 40 GWdc (Gigawatt di corrente diretta), con un valore di 7 miliardi e capaci di fornire elettricità a 20mila abitazioni. Il motivo ? La società di ricerca ipotizza «colli di bottiglia nell’installazione, dovuti a carenze di personale e ritardi nella consegna di altri materiali critici che dureranno fino al 2025». Ma l’accumulo potrebbe anche dipendere in parte da acquisti precauzionali, per prepararsi all’entrata in vigore di quote minime sull’impiego di materiali prodotti nella Ue e all’eventuale imposizione di limiti alle importazioni da Pechino.

Qualunque sia la ragione, resta il fatto che per l’energia solare siamo sempre meno autosufficienti e sempre più legati alla Cina: il settore ha quasi quadruplicato le importazioni negli ultimi 5 anni secondo Rystad, superando 20 miliardi di euro. E il 91% degli acquisti (per un valore di 18,5 miliardi) è «made in China». I fornitori europei d’altra parte sono stati quasi tutti spazzati via, compresa la tedesca SolarWorld, un tempo tra i leader mondiali, che si è arresa nel 2018 dopo due inutili tentativi di salvataggio da parte del fondo sovrano qatarino.

Forse nemmeno i dazi ci avrebbero salvato. Negli Usa – che invece hanno usato il pugno di ferro con Pechino – tre quarti delle celle fotovoltaiche installate provengono secondo il Doe da tre Paesi, Vietnam, Malaysia e Thailandia, dove sono state prodotte da aziende a controllo cinese.

Fonte: Il Sole 24Ore

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