Le quote spettanti ai collaboratori, che non sono contitolari dell’azienda familiare, costituiscono redditi di puro lavoro e devono essere tassati nei limiti di quanto dichiarato dal titolare
In caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell’impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito “pro quota” agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili dell’azienda (Corte di cassazione, ordinanza n. 8582/2023)
La controversia processuale sfociata nella pronuncia in commento prendeva le mosse dall’impugnazione, da parte di un contribuente, di un avviso di accertamento per maggiori imposte dirette (Irpef e addizionali) relative all’anno 2007, con il quale il soggetto titolare di un’impresa familiare nel settore del commercio di generi in privativa (il diritto esclusivo di fabbricazione, utilizzazione e messa in commercio di un prodotto che costituisce un’invenzione industriale, accordato dallo Stato al suo autore), contestava l’imputazione solo a sé del maggior reddito, nonché la mancata deduzione per il coniuge a carico e l’accertamento di un maggior ricavo pur essendosi adeguato agli studi di settore.
I giudizi di merito vedevano soccombere il contribuente, il quale impugnava l’avversa decisione della Ctr della Campania in Cassazione, affidando le doglianze a un unico motivo di ricorso, con il quale egli deduceva la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto (omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, in relazione all’articolo 360, comma 1, numeri 3 e 5, cpc).
Nel merito, il ricorrente sosteneva che i giudici di appello avrebbero riconosciuto corretta l’imputazione al solo titolare dei redditi prodotti dall’impresa familiare.
Il contribuente, inoltre, lamentava l’iniquità della pronuncia impugnata, la quale, a suo dire, non aveva riconosciuto la deduzione per coniuge a carico, rientrando lo stesso nella fascia prevista.
Per quanto riguardava, poi, i ricavi da commercio, la Ctr della Campania non avrebbe tenuto conto della tipologia dell’attività svolta, procedendo allo scorporo dei componenti positivi di reddito accertati, appiattendosi, così, sulla decisione di primo grado.
Inoltre, la sentenza d’appello avrebbe ritenuto, altrettanto erroneamente, che il ricavo fosse nitidamente inferiore a quello di aziende similari, non considerando l’adeguamento operato agli studi di settore, senza alcuna verifica e il tutto basandosi, pertanto, su valutazioni soggettive e personali.
Non erano, infine, applicabili, sempre a detta del ricorrente, le ipotesi previste dal articolo 39, comma 1, lettera c) del Dpr n. 600/1973 e cioè “se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta in modo certo e diretto dai verbali e dai questionari di cui ai numeri 2) e 4) del primo comma dell’articolo 32, dagli atti, documenti e registri esibiti o trasmessi ai sensi del numero 3) dello stesso comma, dalle dichiarazioni di altri soggetti previste negli articoli 6 e 7, dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti o da altri atti e documenti in possesso dell’ufficio”.
I giudici di legittimità, con l’ordinanza n.8582 dello scorso 27 marzo, hanno ritenuto in parte inammissibile il motivo di ricorso (in quanto equiparato a un insieme di censure di violazione di legge sostanziale e censure sulla motivazione, talune peraltro neppure più previste dalla vigente disciplina, come quella attinente alla contraddittorietà o insufficienza della motivazione stessa) e, nel merito, del tutto infondato.
Difatti, avuto riguardo la questione principale attinente l’imputazione del maggior reddito in caso di impresa familiare, la Corte ha richiamato i propri precedenti, in virtù dei quali “in materia di impresa familiare, il reddito percepito dal titolare, che è pari al reddito conseguito dall’impresa al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, costituisce un reddito d’impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori – che non sono contitolari dell’impresa familiare – costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all’imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall’imprenditore” (cfr Cassazione, pronuncia n. 34222/2019).
Ne consegue che, dal punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell’impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito “pro quota” agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d’impresa.
In conclusione, il consolidato principio di diritto che può desumersi è che il maggior reddito imputato all’impresa familiare deve essere attribuito all’imprenditore e non “per trasparenza” ai collaboratori familiari. L’imprenditore è unico e il reddito dei collaboratori, essendo da lavoro, va ragguagliato a quanto l’imprenditore stesso ha dichiarato di aver assegnato loro (cfr Cassazione, ordinanza n.9198/2022).
La controversia processuale sfociata nella pronuncia in commento prendeva le mosse dall’impugnazione, da parte di un contribuente, di un avviso di accertamento per maggiori imposte dirette (Irpef e addizionali) relative all’anno 2007, con il quale il soggetto titolare di un’impresa familiare nel settore del commercio di generi in privativa (il diritto esclusivo di fabbricazione, utilizzazione e messa in commercio di un prodotto che costituisce un’invenzione industriale, accordato dallo Stato al suo autore), contestava l’imputazione solo a sé del maggior reddito, nonché la mancata deduzione per il coniuge a carico e l’accertamento di un maggior ricavo pur essendosi adeguato agli studi di settore.
I giudizi di merito vedevano soccombere il contribuente, il quale impugnava l’avversa decisione della Ctr della Campania in Cassazione, affidando le doglianze a un unico motivo di ricorso, con il quale egli deduceva la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto (omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, in relazione all’articolo 360, comma 1, numeri 3 e 5, cpc).
Nel merito, il ricorrente sosteneva che i giudici di appello avrebbero riconosciuto corretta l’imputazione al solo titolare dei redditi prodotti dall’impresa familiare.
Il contribuente, inoltre, lamentava l’iniquità della pronuncia impugnata, la quale, a suo dire, non aveva riconosciuto la deduzione per coniuge a carico, rientrando lo stesso nella fascia prevista.
Per quanto riguardava, poi, i ricavi da commercio, la Ctr della Campania non avrebbe tenuto conto della tipologia dell’attività svolta, procedendo allo scorporo dei componenti positivi di reddito accertati, appiattendosi, così, sulla decisione di primo grado.
Inoltre, la sentenza d’appello avrebbe ritenuto, altrettanto erroneamente, che il ricavo fosse nitidamente inferiore a quello di aziende similari, non considerando l’adeguamento operato agli studi di settore, senza alcuna verifica e il tutto basandosi, pertanto, su valutazioni soggettive e personali.
Non erano, infine, applicabili, sempre a detta del ricorrente, le ipotesi previste dal articolo 39, comma 1, lettera c) del Dpr n. 600/1973 e cioè “se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta in modo certo e diretto dai verbali e dai questionari di cui ai numeri 2) e 4) del primo comma dell’articolo 32, dagli atti, documenti e registri esibiti o trasmessi ai sensi del numero 3) dello stesso comma, dalle dichiarazioni di altri soggetti previste negli articoli 6 e 7, dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti o da altri atti e documenti in possesso dell’ufficio”.
I giudici di legittimità, con l’ordinanza n.8582 dello scorso 27 marzo, hanno ritenuto in parte inammissibile il motivo di ricorso (in quanto equiparato a un insieme di censure di violazione di legge sostanziale e censure sulla motivazione, talune peraltro neppure più previste dalla vigente disciplina, come quella attinente alla contraddittorietà o insufficienza della motivazione stessa) e, nel merito, del tutto infondato.
Difatti, avuto riguardo la questione principale attinente l’imputazione del maggior reddito in caso di impresa familiare, la Corte ha richiamato i propri precedenti, in virtù dei quali “in materia di impresa familiare, il reddito percepito dal titolare, che è pari al reddito conseguito dall’impresa al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, costituisce un reddito d’impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori – che non sono contitolari dell’impresa familiare – costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all’imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall’imprenditore” (cfr Cassazione, pronuncia n. 34222/2019).
Ne consegue che, dal punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell’impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito “pro quota” agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d’impresa.
In conclusione, il consolidato principio di diritto che può desumersi è che il maggior reddito imputato all’impresa familiare deve essere attribuito all’imprenditore e non “per trasparenza” ai collaboratori familiari. L’imprenditore è unico e il reddito dei collaboratori, essendo da lavoro, va ragguagliato a quanto l’imprenditore stesso ha dichiarato di aver assegnato loro (cfr Cassazione, ordinanza n.9198/2022).
Fonte: Agenzia delle Entrate