Le cripto-attività, in materia Iva, non possono, almeno allo stato attuale, ricevere un trattamento unico e univoco, in quanto è necessario, sulla base di un approccio “look through”, analizzare di volta in volta i diritti ovvero i beni sottostanti il singolo strumento utilizzato.
Questo è il principio indicato nella bozza di circolare delle Entrate, attualmente in consultazione, che tratta la relativa fiscalità. In effetti, l’approccio proposto, che vuole premiare la sostanza rispetto alla forma, anche se del tutto condivisibile può dar luogo ad interpretazioni difformi che genereranno non poche incertezze applicative.
La stessa Agenzia ammette che il vorticoso sviluppo degli strumenti annoverabili sotto il titolo di cripto attività, combinato con la mancanza di disposizioni specifiche in materia Iva e la limitatezza delle linee guida Iva a livello Ue e Ocse costringe l’interprete ad adattare i principi esistenti al contenuto effettivo delle transazioni che si realizzano. In effetti, anche se la discussione sul tema è sempre accesa, non ritengo che si possa o si debba prevedere un’apposita regolamentazione, ma sarebbe necessario entrare in maggiore dettaglio conducendo l’indagine alla piena comprensione delle soluzioni che la circolare propone in riferimento ai singoli casi considerati.
Entrando proprio sulla casistica la circolare affronta in rapida successione, appoggiandosi o sulle pronunce della corte di Giustizia e del comitato Iva, o sui principi proposti a livello Ocse, ovvero sulla propria prassi più o meno recente una serie di casi che costituiscono solo una minima parte del variato mondo delle cripto attività.
Per il trattamento delle transazioni che hanno ad oggetto bitcoin, ad esempio, l’analisi riporta quanto sostenuto dalla Corte di giustizia con la sentenza Hedqvist (causa C-264/14). In tale sentenza la Corte affronta un caso ben delimitato identificabile nello scambio di valuta virtuale contro valuta tradizionale con il pagamento di un corrispettivo al prestatore pari alla somma corrispondente la differenza tra il prezzo a cui acquista le valute e, dall’altra, il prezzo al quale vende ai suoi clienti. In relazione a tale caso la Corte sostiene che siamo in presenza di una prestazione onerosa e che tale prestazione vada configurata come un’operazione esente in base all’articolo 135, paragrafo 1, lett. e) della direttiva Iva (dir 2006/112/CE). Se vogliamo, la Corte giudica il caso che si è verificato alla stessa stregua di uno scambio di valute tradizionali per le quali il compenso dovuto al prestatore che interviene è soggetto a Iva con un regime di esenzione specifico proprio delle operazioni finanziarie.
Partendo da tale sentenza l’Agenzia considera, in analogia al caso esaminato dalla Corte, che risultano esenti, oltre ai cambi di valuta tradizionale contro valuta virtuale, anche le attività di mining su valute virtuali: i servizi di digital wallet ovvero lo staking. Ovviamente solo nel caso in cui per tali servizi il prestatore si faccia pagare in modo esplicito da un committente ben determinato. Un caso particolare è quello del mining in cui le Entrate sottolineano che in molti casi l’attività del prestatore (il quale provvede a verificare e aggiungere le transazioni in criptovalute al registro delle transazioni) non è realizzato a favore di una parte ben determinata, ma viene realizzata per il sistema al mero scopo di consentire lo sviluppo di diverse forme di scambio di beni e servizi. In tale situazione l’attività del prestatore è fuori campo Iva.
Dagli esempi qui considerati e ripresi dalla circolare si comprende bene l’approccio dell’Agenzia e della Corte Ue, che rispettando le regole tradizionali cercano di trovare la soluzione Iva da applicare. Questo metodo viene ripreso dalla circolare in altre situazioni, quali il caso degli Nft o delle utility token, con risultati molto più complessi e incerti.
Fonte: Il Sole 24 ORE