L’entrata in vigore delle disposizioni sull’equo compenso (legge 21 aprile 2023 n. 49) tra i tanti elementi di novità include la modifica dei criteri di determinazione dei compensi nei collegi sindacali anche nel mondo delle società pubbliche. Infatti, viene stabilito che «le disposizioni della presente legge si applicano altresì alle prestazioni rese dai professionisti in favore della pubblica amministrazione e delle società disciplinate dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175» (articolo 2, comma 3).
La ratio della norma, del resto, è più che condivisibile, giacché la sua finalità è esattamente quella di riconoscere un compenso che sia proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale. Non si vede per quale ragione dovrebbero derogare a questo principio di equità proprio le società pubbliche.
Per quanto riguarda i dottori commercialisti e gli esperti contabili che svolgono la funzione di membro del collegio sindacale, esiste una disposizione espressa: tale compenso deve essere conforme a quanto previsto dal Dm 140/2012, peraltro con livelli di indennità che richiedono un tempestivo aggiornamento, visto il decreto è stato approvato oltre 10 anni fa.
Per contro, il dubbio che possa prevalere il dettato del Tusp su quello della legge 49/2023, in virtù del fatto che «non sono nulle le clausole che riproducono disposizioni di legge» (articolo 3, comma 3, della legge 49/2023), non pare possa riferirsi a una norma di rango regolamentare, che, altrimenti, vanificherebbe lo spirito della legge che, a questo proposito, è assolutamente inequivoca.
Stabilita quale sia la disposizione che prevale, è comunque interessante procedere a un confronto tra le proposte in campo, così da rendersi conto delle differenze e, diciamolo pure, per trovare conferma della iniquità dei trattamenti economici riportati nelle bozze del decreto che dovrebbe essere emanato per l’articolo 11 del Tusp.
Facciamo un esempio, partendo dalle bozze di decreto relativo ai compensi delle società non quotate a controllo pubblico previsto dall’articolo 11, comma 6, del Tusp e presentato due volte in Conferenza unificata, anche se solo in sede tecnica, salvo poi essere richiuso nuovamente in un cassetto. La bozza di decreto individua 5 fasce dimensionali per le società pubbliche, prendendo a riferimento parametri dimensionali delle società comparabili con quelli prospettati dalla legge sull’equo compenso, ovvero: il valore della produzione, il totale dell’attivo e il numero dei dipendenti. A fronte di tali categorie il decreto individua i trattamenti economici di amministratori, sindaci e dipendenti.
La legge 49/2023, facendo rinvio al Dm 140/2012 (articolo 29), prende invece a riferimento «la sommatoria dei componenti positivi di reddito lordi e delle attività», assumendo, quindi, come rilevanti valori all’incirca confrontabili con quelli individuati dalla bozza di decreto Mef.
Facciamo ora i conti. Nel gradino più basso della fascia minore delle società pubbliche, il decreto Mef individua un compenso massimo di 8.000 euro per il componente dell’organo di controllo. Al contrario, la norma sull’equo compenso, prevede un compenso minimo di 6.000 euro per l’incarico di sindaco di una società pubblica, anche molto piccola, mentre restando sempre nella stessa fascia del decreto Mef (quindi per una società con 80 milioni di valore della produzione + attivo) l’importo secondo l’equo compenso sale fino a 12.750 euro applicando il coefficiente minimo previsto dal Dm 140/2012, ovvero lo 0,009%. L’auspicio, visto che il decreto Mef è atteso ormai da tanto (troppo) tempo, è che nella sua versione definitiva sia adeguato al dettato della legge 49/2023, evitando così una ridda di inevitabili ricorsi.
Fonte: Il Sole 24 ORE