Nel contesto di un’operazione di merger and acquisition (M&A) si susseguono, in modo quasi liturgico, alcune fasi negoziali tipiche. Generalmente, infatti, le parti giungono alla firma di un accordo vincolante a distanza di diversi mesi dall’avvio delle trattative.
Durante trattative di siffatta complessità, può accadere che una delle parti, anche dopo diversi mesi di lavoro, decida di abbandonare la negoziazione e con essa l’ipotizzata operazione di acquisizione. In quest’ottica, vale dunque la pena chiedersi se l’ordinamento italiano predisponga una qualche forma di tutela dell’affidamento che il contraente che subisce il recesso ripone nella conclusione dell’affare, quantomeno in presenza di circostanze tali da far ragionevolmente presupporre una rottura immotivata o patologica delle contrattazioni.
In particolare, il principale problema che si pone relativamente alla configurabilità della responsabilità precontrattuale per ingiustificata rottura delle trattative aventi a oggetto l’acquisto di partecipazioni sociali consiste nel comprendere quando lo stato di avanzamento della trattativa possa ritenersi tale da ingenerare nella parte il ragionevole affidamento circa la conclusione dell’affare, sì da rendere sanzionabile il recesso immotivato da parte dell’altro contraente. Orbene, la risposta a questo interrogativo non potrà che variare di volta in volta, sulla scorta delle specificità del caso concreto. Alla luce di ciò, si impone una panoramica sui recenti orientamenti giurisprudenziali, alla ricerca di criteri generali uniformemente applicabili.
Con sentenza n. 11036 del 3 novembre 2017, il Tribunale di Milano è stato chiamato a valutare la fondatezza delle richieste risarcitorie avanzate da un contraente nell’ambito di un contratto di compravendita di quote sociali, giungendo a ritenere insussistente l’asserita violazione da parte del recedente del dovere di negoziare in buona fede. In particolare, il Tribunale meneghino ha escluso la pretestuosità dei motivi alla base della rottura delle trattative, che avevano ad oggetto l’ampiezza delle garanzie, il pagamento differito di parte del prezzo e la definizione di termini e condizioni di obblighi di non concorrenza da parte dell’alienante. I giudici hanno, infatti, ritenuto che dette condizioni costituissero elementi essenziali dell’operazione, con la conseguenza che il mancato raggiungimento di un accordo sui medesimi non avrebbe potuto ingenerare nella controparte quel livello minimo di affidamento nella conclusione dell’affare richiesto ai fini della configurabilità di un’eventuale responsabilità precontrattuale, legittimando per converso la scelta del contraente recedente di abbandonare il tavolo negoziale.
Nel solco della giurisprudenza appena richiamata si è inserita la pronuncia n. 1663 del 28 maggio 2020 del Tribunale di Torino e, da ultimo, il Tribunale di Bologna, con sentenza n. 2287 del 5 ottobre 2021.
Ora, se la generale tendenza dei tribunali è stata quella di privilegiare la libertà di recesso dalle trattative, con un deciso favor verso l’autonomia negoziale, non sono tuttavia mancate pronunce favorevoli al riconoscimento della violazione del dovere di buona fede negoziale in capo al recedente.In quest’ottica, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 4927 del 4 maggio 2017, ha condannato la condotta di parte venditrice.
Nel caso di specie, infatti, il Tribunale rileva come le parti fossero giunte, dopo alcuni mesi di trattative e diversi scambi di bozze dei documenti contrattuali, ad un assetto definitivo e condiviso del contenuto degli accordi, la cui sottoscrizione era prevista, contestualmente alla formalizzazione del trasferimento delle partecipazioni innanzi a notaio (c.d. signing e closing contestuale), nel medesimo giorno in cui era stata comunicata la volontà di interruzione delle trattative da parte del venditore.
Peraltro, in vista del perfezionamento dell’operazione, era altresì stato dato impulso a una serie di atti societari interni alla società oggetto di acquisizione a dimostrazione dello stadio avanzato delle negoziazioni.
Tanto premesso, secondo il ragionamento della corte meneghina, il fatto che i convenuti avessero lasciato evolvere le trattative sino a un punto di sostanziale coincidenza degli impegni richiesti ed offerti, senza adeguatamente e tempestivamente informare le altre parti delle ragioni che hanno determinato una loro ritrattazione del consenso, ha costituito un comportamento pienamente valutabile sotto il profilo del mancato rispetto degli obblighi di buona fede oggettiva, ossia una mancata reciproca lealtà di condotta.
Invero, la controproposta con cui parte venditrice mutava le condizioni di fattibilità dell’affare avrebbe potuto essere formulata ben prima che le intese raggiunte sulle versioni dei testi contrattuali ingenerassero il convincimento sull’esito positivo dell’affare, in aderenza al più volte richiamato canone della buona fede.
I giudici di Milano hanno condannato i convenuti al ristoro dell’interesse negativo, comprendente tutte le somme investite per le attività di consulenza afferenti alla strutturazione dell’operazione e allo svolgimento delle negoziazioni durante gli otto mesi in cui si sono protratte, nonché della perdita di chance, liquidata in via equitativa ex articolo 1226 del Codice civile, dal momento che gli attori, nella loro qualità di operatori professionali, nel tempo occorrente a coltivare la trattativa rotta ingiustificatamente, avevano perso occasioni di concludere affari alternativi.
Con riferimento a quest’ultima voce di danno, il Tribunale ha in particolar modo individuato il pregiudizio da perdita di chance in un importo corrispondente alla sommatoria dei costi fissi internamente sostenuti dagli acquirenti – mediante la costruzione di un team appositamente dedicato all’operazione – nonché del costo relativo alle attività consulenziali svolte da un soggetto di cui uno degli acquirenti si era avvalso in forza di un contratto a prestazione continuativa.
Se, infatti, per un verso, ad avviso del Tribunale tali costi non potevano rientrare sotto l’etichetta del danno emergente, poiché – stante il carattere fisso che li contraddistingueva – sarebbero comunque stati affrontati dagli acquirenti (i quali non avevano peraltro fornito prova alcuna circa l’esclusivo legame funzionale dei suddetti rapporti di lavoro con la conclusione dell’affare), per altro verso, dette spese venivano in rilievo sotto il profilo della perdita di chance, intesa quale perdita della possibilità di impiegare gli sforzi di quei soggetti (e i relativi costi sostenuti) su affari alternativi, che, viceversa, sarebbero potuti giungere a buon fine.
Appare, peraltro, opportuno sottolineare come, nel caso di specie, il criterio equitativo abbia avuto un peso rilevante nella quantificazione del danno, costituendo la componente da perdita di chance oltre il 50% del danno ritenuto complessivamente risarcibile.In conclusione, si può affermare l’impossibilità di effettuare una valutazione ex ante in materia di responsabilità precontrattuale nell’ambito di operazione di acquisto di partecipazioni sociali che prescinda dalla fattispecie concreta e dall’analisi dello stato di avanzamento della singola trattativa.
Si suggerisce, in ogni caso, agli operatori di prestare estrema attenzione nella fase di redazione delle comunicazioni di interruzione delle trattative e dei relativi motivi sui quali si fonda il recesso: solo un recesso effettuato in un momento temporale congruo rispetto allo stato di fisiologico avanzamento dell’operazione e ben argomentato sotto il profilo negoziale è idoneo ad escludere la responsabilità precontrattuale della parte recedente.
Fonte: Il Sole 24 ORE