La Corte costituzionale, con sentenze 128 e 129 del 2024, pur pronunciandosi su questioni distinte (il licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’una, e quello disciplinare l’altra), finisce, in egual misura, col ribaltare una volta di più la ratio della disciplina introdotta dal Jobs act
Con il recente duplice intervento (sentenze 128 e 129 del 2024), la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi – (ancora una volta) con animus demolitorio – sul Jobs act, (i) dichiarandone costituzionalmente illegittimo, con la prima delle due sentenze, l’art. 3, comma 2, nella parte in cui, ove dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, ometteva di applicare la sanzione della reintegrazione – già prevista per il licenziamento disciplinare – anche a quello per ragioni economiche, e (ii) stabilendo, con la seconda, il diritto del lavoratore a essere reintegrato nel posto di lavoro nel caso in cui il fatto all’origine del licenziamento, pur disciplinarmente rilevante, sia punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione meramente conservativa.
Il licenziamento c.d. economico: l’apparato rimediale ridisegnato dalla Corte costituzionale
Prima di venire al merito della prima delle due pronunce in commento, giova tentare di comporre – sulla scia del percorso logico-argomentativo seguito dalla Consulta stessa – un quadro ricognitivo delle tutele previste, negli anni, in caso di licenziamento individuale illegittimo per difetto di giustificato motivo oggettivo. E ciò in quanto il recesso datoriale connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative – pur essendosi caratterizzato per la “stabilità della definizione della ragione legittimante” [1] – è stato segnato da significative modifiche del sistema rimediale, “che hanno portato per esso a un progressivo ridimensionamento nel tempo della tutela reintegratoria” [2].
Se, infatti, con l’art. 18, St. Lav. la reintegrazione nel posto di lavoro rappresentava, per le imprese medio-grandi, l’unica sanzione da applicarsi a ogni ipotesi di licenziamento illegittimo, con la riforma Fornero (L. n. 92/2012) l’ambito di operatività della tutela reintegratoria “generalizzata” – con cui si è convissuto, di fatto, per oltre 40 anni – è stato ridotto, e riservato, con specifico riferimento al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ai soli casi di illegittimità più grave, vale a dire quelli in cui il motivo allegato dal datore di lavoro risulti “manifestamente insussistente” [3].
Questa precisa scelta legislativa di marginalizzazione del regime reintegratorio è stata, poi, replicata e completata dal D.lgs. n. 23/2015 che, con l’intento di sovvertire anch’esso il rapporto – di matrice statutaria – di regola-eccezione tra la tutela reale e quella indennitaria [4], rendendo la prima meramente residuale, ha previsto la reintegrazione in due sole ipotesi: da un lato, a fronte di un licenziamento nullo, discriminatorio o intimato in forma orale; dall’altro, nell’ipotesi di licenziamento disciplinare, qualora sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore [5] .
E, con riferimento a quest’ultima ipotesi, non vi è dubbio che, dovendosi trattare di un “fatto […] contestato al lavoratore”, esso non può che essere inteso come limitato al licenziamento disciplinare, con la conseguenza che per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo la tutela non è mai reale ma sempre e solo obbligatoria [6] .
E’ in questo contesto di plurime stratificazioni normative – oltre che giurisprudenziali – che si inserisce la sentenza n. 128 del 2024, con cui la Corte costituzionale ha accolto la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Ravenna con riferimento all’art. 3, comma 2, D.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui non prevedeva che la tutela reintegratoria si applicasse anche nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui fosse direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro.
In particolare, la Consulta – collocata la fattispecie in commento nel solco “della […] prescrizione della natura necessariamente causale del recesso datoriale” – ha chiarito anzitutto che tale prescrizione “cardine mai smentita” esige che – seppure la ragione d’impresa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non sia sindacabile nel merito – il fatto materiale allegato dal datore di lavoro sia quantomeno “sussistente”, dovendosi altrimenti ritenere violato il principio di necessaria causalità.
Ciò premesso – ha proseguito la Corte – è proprio “la radicale irrilevanza […] dell’insussistenza del fatto materiale nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo” – a differenza di quanto accade nella parallela ipotesi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo – a determinare “un difetto di sistematicità”. E ciò in quanto il fatto, vuoi se contestato al lavoratore come “condotta inadempiente che in realtà non c’è stata”, vuoi se indicato “come ragione di impresa che in realtà non sussiste”, è, in entrambi i casi, egualmente insussistente.
Di qui la declaratoria di illegittimità dell’art. 3, comma 2, D.lgs. n. 23/2015, che – ancorando, di fatto, la reintegra alla qualificazione giuridica del licenziamento utilizzata dal datore di lavoro, cui è concesso di sfuggire al rischio di reintegrazione semplicemente costruendo un motivo di recesso ad hoc basato su un fatto materiale inesistente – differenzia, ingiustificatamente, “situazioni del tutto identiche, o almeno omogenee”.
In definitiva la Corte, valorizzando i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, ha escluso che possa esserci – nel caso in cui si accerti che il fatto (oggettivo o soggettivo) non esiste – “una ragione che giustifichi una regola differenziata” per il licenziamento economico e per quello disciplinare, dovendo corrispondere “a una pari gravità del vizio […] un eguale trattamento sanzionatorio”.
Il licenziamento disciplinare: la sentenza n. 129/2024 e il ritorno della rilevanza delle condotte punibili con sanzione conservativa
Anche la seconda delle due pronunce in commento è figlia, in un certo senso, del passaggio, dapprima, dal regime originario di cui all’art. 18, St. Lav. a quello novellato dalla riforma Fornero e, poi, da questi alla disciplina dei licenziamenti illegittimi introdotta dal Jobs act. E così, anche rispetto alla seconda delle due pronunce in commento, la Consulta ha preliminarmente ripercorso, per tappe, l’evoluzione del quadro normativo di riferimento, per poi approdare a una soluzione che incide, anch’essa, sulle scelte politiche operate nel 2015.
Lo Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla L. n. 92/2012, prevede all’art. 18, comma 4, l’applicazione della tutela reintegratoria non soltanto alle ipotesi in cui “non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato” ma anche a quelle in cui gli anzidetti estremi non ricorrono “perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili” [7].
Analoga previsione non si rinviene, tuttavia, nel successivo D.lgs. n. 23/2015 che, nella sua opera di ridimensionamento dell’ambito di applicazione del rimedio reintegratorio, non ha incluso, all’art. 3, comma 2, alcun riferimento testuale alla tipizzazione nei contratti collettivi delle condotte disciplinari.
Se, dunque, da un lato, il testo del novellato art. 18, comma 4, St. Lav., ha dotato le disposizioni contrattuali di carattere vincolante, espressamente riconoscendo alla contrattazione collettiva un ruolo centrale nella regolazione del rapporto di lavoro, il legislatore del 2015, con l’espunzione delle condotte per le quali i contratti collettivi prevedono sanzioni conservative dalle cause di reintegrazione, ha incrinato “il tradizionale ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti” [8] .
Ed è proprio sulla base di questo assunto che la Consulta ha fornito un’interpretazione adeguatrice, “orientata alla conformità all’art. 39” della Costituzione [9] , dell’art. 3, comma 2, del Jobs act, censurato – questa volta dal Tribunale di Catania – per violazione di una pluralità di disposizioni di rango costituzionale, tra cui il citato art. 39, in ragione del mancato riconoscimento della reintegra quando per l’inadempienza contestata al lavoratore sia la stessa contrattazione collettiva a prevedere una sanzione conservativa.
Orbene, la Corte costituzionale ha chiarito anzitutto che a governare il licenziamento disciplinare è il principio di proporzionalità, secondo cui “l’inadempimento del lavoratore deve essere caratterizzato da una gravità tale da compromettere definitivamente la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto”. Dall’applicazione di tale principio discende – ha proseguito il Giudice delle leggi – che “il licenziamento […] è giustificato, e quindi legittimo, solo se proporzionato alla gravità dell’addebito contestato e accertato in giudizio”.
Tanto premesso, laddove la legge escludesse l’illegittimità per sproporzione di un licenziamento punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa, allora essa “comprimerebbe ingiustificatamente l’autonomia collettiva” e, per ciò stesso, sarebbe costituzionalmente illegittima.
Venendo, quindi, all’asserito contrasto dell’art. 3, comma 2, D.lgs. n. 23/2015 con l’art. 39 Cost., la Consulta – essendo, d’altronde, tra le sue prerogative indicare l’interpretazione adeguatrice di una legge “sì da superare un dubbio di legittimità costituzionale” – ha stabilito che il citato art. 3, comma 2, lungi dall’essere dichiarato costituzionalmente illegittimo “solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali” [10], deve essere letto nel senso di equiparare l’ipotesi del fatto materiale insussistente a quella in cui il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa.
In tali ipotesi, infatti, ha proseguito la Corte, “il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento” che, se intimato, “risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva”, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria.
In definitiva, dunque, anche se a seguito del D.lgs. n. 23/2015 l’area della tutela reintegratoria si è ridotta, con il venir meno (anche) della rilevanza della valutazione convenzionale di fonte pattizia della proporzionalità delle sanzioni disciplinari irrogabili, la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 3, comma 2, prospettata dalla Consulta, conduce alla riaffermazione della tipizzazione operata dalla contrattazione collettiva che, ove qualifichi “specifiche e nominate” [11] inadempienze del lavoratore come meno gravi e, perciò, reprimibili con sanzioni solo conservative, è idonea a precludere la sanzione espulsiva, qual è il licenziamento, poiché convenzionalmente sproporzionata.
Conclusioni
Le due sentenze in commento, pur pronunciandosi su questioni distinte (il licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’una, e quello disciplinare l’altra), finiscono, entrambe e in egual misura, col ribaltare una volta di più la ratio della disciplina introdotta dal Jobs act.
Se, infatti, l’intento manifesto del legislatore del 2015 era quello di circoscrivere l’applicazione della tutela reintegratoria a ipotesi marginali, seppur gravi, individuando nel risarcimento del danno il rimedio ordinario a fronte del recesso datoriale, gli interventi correttivi della Corte costituzionale – e non solo quelli in commento – hanno segnato un “revival” della reintegra che, per loro tramite, e nonostante i depotenziamenti apportati dalle riforme, sembra mantenere “il suo valore di archetipo iniziale” [12] nella disciplina dei licenziamenti.
Sicché, venendo eroso sempre più il “core” del Jobs act, il progressivo assottigliamento delle differenze tra questi e l’art. 18, St. Lav., sino al loro annullamento, è dietro l’angolo: verrebbe da dire, con il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
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[1] Corte cost. n. 128 del 2024.
[2] Supra.
[3] La Corte costituzionale, con sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, St. Lav., come modificato dalla L. n. 92/2012, limitatamente alla parola “manifesta”. Si è trattato di un’operazione che ha “ricondotto a razionalità una norma che si presentava come incongrua […] rispetto all’assenza di parametri per interpretare il senso di quell’aggettivo ”manifesta”, la cui evanescenza e labilità è stata chiaramente sottolineata dai giudici delle leggi”. Sul punto, A. Doronzo, Il licenziamento economico, dalla legge n. 604 del 1966 alle recenti sentenze della Corte costituzionale, in LavoroDirittiEuropa – Rivista nuova di Diritto del Lavoro, n. 2/2023, pag. 12.
[4] F. Carinci, Il licenziamento disciplinare, in F. Carinci e C. Cester (a cura di), ll licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), ADAPT Labour Studies e-Book series, n. 46, pagg. 73 e ss.
[5] Cfr. A. Gana, La riforma del licenziamento illegittimo tra legge Fornero e “Jobs Act”, in P. Loi (a cura di), Riforme del mercato del lavoro ed effetti sull’occupazione, Giappichelli, Torino, 2018, pagg. 21 e ss; M. De Luca, La disciplina dei licenziamenti tra tradizione e innovazione: per una lettura conforme a Costituzione, in Arg. dir. lav., 2013, 1, pagg. 199 e ss.
[6] Cfr. nota [1].
[7] L’art. 18, comma 4, St. Lav., è stato, in un primo tempo, interpretato dalla giurisprudenza nel senso che la tutela reale ivi prevista “sarebbe applicabile solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa” (Cfr., ex multis, Cass. 5 dicembre 2019, n. 31839; Cass. 9 maggio 2019, n. 12365). Un diverso orientamento più recente ne ha privilegiato, invece, una lettura estensiva, secondo cui “al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 (tutela reale) e 5 (tutela indennitaria cd. ”forte”) […] è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche” (Cfr., ex multis, Cass. 21 aprile 2022, n. 12745; Cass. 2 maggio 2022, n. 13774). Sul punto, A. Bottini, G. Falasca, A. Zambelli, Manuale di Diritto del Lavoro, Gruppo 24Ore, 2023, pag. 302.
[8] Corte cost. n. 129 del 2024.
[9] Il testo dell’art. 39 Cost. così recita: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
[10] Corte cost. n. 42 del 2017.
[11] E ciò in linea con l’art. 30, comma 3, L. n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) – richiamato dalla stessa Consulta – che, prevedendo che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi”, implica che compito della contrattazione collettiva sia quello di riempire di contenuto le clausole generali legali (giusta causa e giustificato motivo), e non prevedere, a sua volta, ulteriori clausole generali. Sul punto, M. Biasi, Il nuovo art. 18 dopo un anno di applicazione giurisprudenziale: un bilancio provvisorio, in Working Papers C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 2/2013, pagg. 52 e ss.
[12] V. Amoroso, Articolo 18 statuto dei lavoratori. Una storia lunga oltre cinquant’anni, Cacucci Editore, Bari, 2022.