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Deducibilità di costi sproporzionati: legittimo l’accertamento induttivo

Valido l’avviso dell’Ufficio basato sul fatto che il contribuente aveva dedotto importi ingenti rispetto alle prestazioni effettuate senza neanche provare la loro inerenza

Con la decisione del 10 aprile 2024, n. 9664, la Suprema corte ha confermato il proprio consolidato orientamento secondo cui in tema di accertamento delle imposte sui redditi, deve ritenersi legittima, a mente degli articoli 38 e 39 del Dpr n. 600/1973, la rettifica induttiva del reddito d’impresa operata in presenza di contabilità formalmente regolare quando, sulla base di presunzioni dotate dei requisiti prescritti dall’articolo 2729, primo comma, codice civile, possa fondatamente ritenersi che l’entità del reddito dichiarato si ponga in evidente contrasto con il comune buon senso e con le regole basilari della ragionevolezza. Nel caso di specie analizzato dai giudici, l’accertamento fiscale è stato dichiarato pienamente legittimo in quanto fondato sulla sproporzione dei costi rispetto alle prestazioni indicate e sulla discordanza tra i dati presenti in contabilità relativi ai componenti negativi di reddito e i versamenti avvenuti con bonifici bancari.

Il caso controverso
La controversia in commento origina dalla notifica di un avviso di accertamento con cui l’Agenzia recuperava a imposizione nei confronti di una società a responsabilità limitata, ai fini delle imposte dirette e dell’Iva, costi ritenuti indeducibili in quanto relativi ad operazioni inesistenti. Dai dati in possesso dell’amministrazione finanziaria emergeva infatti che, nell’anno in questione, la srl accertata aveva dedotto componenti negativi di reddito per un importo molto ingente, per servizi periodici di pulizia che sarebbero stati resi da una ditta individuale. L’abnormità di tali spese mal si conciliava con le capacità organizzative di una ditta individuale, in particolar modo con riferimento alla scarsa qualificazione dei servizi forniti (pulizia, imbiancatura nei mesi di maggio e giugno). Inoltre, dall’attività istruttoria svolta dalla parte pubblica, emergeva che il fornitore del servizio aveva ricevuto, a sua volta, fatture per servizi di pulizia per importi del tutto analoghi, e nell’annualità in esame lo stesso soggetto era stato impiegato presso la società che aveva commissionato il servizio per trecentotrentasei giorni in qualità di collaboratore coordinato e continuativo, percependo il relativo compenso.

La Ctr della Lombardia rilevava che dall’analisi del bilancio, della nota integrativa e delle fatture emesse, i costi da considerarsi “non deducibili” dovevano essere ridotti nel loro ammontare e riportati ad un importo considerevolmente inferiore a quello constatato dall’Ufficio: pertanto l’atto impositivo veniva confermato soltanto entro i nuovi limiti posti dall’organo giudiziario.

Contro tale decisione proponeva ricorso l’Agenzia, denunziando la violazione degli articoli 2697 e 2729 cc., in quanto la Ctr aveva ritenuto che la deducibilità dei costi contestati dall’Ufficio potesse fondarsi unicamente sulla regolarità formale della loro contabilizzazione; inoltre veniva contestato l’omesso esame da parte dei giudici regionali del quadro indiziario evidenziato dall’Ufficio a riprova dell’inesistenza delle operazioni fatturate.

La decisione della Suprema corte
Con l’ordinanza in commento i giudici della Corte di Cassazione, dopo aver richiamato i consolidati principi sul tema, affermano la piena legittimità dell’accertamento fiscale fondato sulla sproporzione dei costi rispetto alle prestazioni indicate e sulla discordanza tra i dati presenti in contabilità relativi ai componenti negativi di reddito ed i versamenti avvenuti con bonifici bancari.

I giudici di legittimità precisano che la Ctr ha ignorato una serie di elementi fondanti l’accertamento fiscale, quali la sproporzione dei costi rispetto alle prestazioni indicate e la discordanza tra i dati presenti in contabilità in merito ai componenti negativi di reddito ed i versamenti avvenuti con bonifici bancari; di conseguenza la sentenza impugnata è stata cassata. Inoltre, la Suprema corte condivide l’operato dell’Agenzia laddove rilevava che il fornitore delle prestazioni, a sua volta, aveva emesso fatture per servizi di pulizia per importi del tutto analoghi e risultava aver collaborato in modo coordinato e continuativo per la gran parte dell’anno presso la società contribuente.

Brevi osservazioni
La Suprema corte ha già chiarito da tempo, che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, deve ritenersi legittima, a mente degli articoli 38 e 39 Dpr n. 600/1973, la rettifica induttiva del reddito d’impresa operata in presenza di contabilità formalmente regolare quando, sulla base di presunzioni dotate dei requisiti prescritti dall’articolo 2729, primo comma, codice civile, possa fondatamente ritenersi che l’entità del reddito dichiarato si ponga in evidente contrasto con il comune buon senso e con le regole basilari della ragionevolezza. Nel caso di specie il presupposto di fatto per il superamento delle risultanze contabili è stato individuato nell’avvenuta annotazione di fatture per operazioni inesistenti (sul punto, cfr Cassazione n. 26130/2007).

In tema d’imposte sui redditi, è stata altresì affermata la legittimità del ricorso all’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa ai sensi dell’articolo 39, primo comma, lettera d), del Dpr n. 600/1973, anche in presenza di una contabilità formalmente corretta, ma complessivamente inattendibile, potendosi, in tale ipotesi, evincere l’esistenza di maggiori ricavi o di minori costi in base a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, per il cui assolvimento, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti, da cui il fisco ha dedotto l’inesistenza delle passività dichiarate, non è sufficiente la regolare annotazione delle fatture nelle scritture contabili (Cassazione n. 23550/2014). Si è anche precisato che rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato (Cassazione n. 22176/2016).

Nel caso di specie, i giudici della Cassazione, al fine di verificare la legittimità dell’accertamento fiscale hanno preso in considerazione, come detto, l’elemento della “sproporzione” dei componenti negativi di reddito (di importo complessivo pari a euro 690mila) rapportati alle capacità organizzative del fornitore (ditta individuale) e alla scarsa qualificazione dei servizi forniti (pulizia, imbiancatura nei mesi di maggio e giugno). Altro elemento valorizzato è l’irragionevolezza dei costi dedotti in considerazione del fatto che la ditta individuale fornitrice aveva ricevuto, a sua volta, fatture per servizi di pulizia per importi del tutto analoghi. Da ultimo a giudizio dei giudici di legittimità il costo risultava anomalo anche in considerazione del fatto che il titolare della ditta individuale fornitrice, nell’annualità in esame, era stato impiegato presso la stessa società committente per gran parte del tempo (336 giorni) in qualità di collaboratore coordinato e continuativo, percependo dalla stessa il relativo compenso.

In definitiva, sembra consolidarsi l’orientamento secondo cui nei casi in cui vengano accertati elementi di anomalia qualitativa e quantitativa dei componenti negativi, spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili e, a tal fine, non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa.

Sempre in tema di condotta antieconomica del contribuente, con successiva sentenza (la n. 28075/2009), la suprema Corte ha affermato che “è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente”.

In conclusione tutto ciò vale, anche, nel caso in cui all’ufficio sia consentito procedere anche con presunzioni “semplicissime” ovvero prive dei requisiti sopra ricordati: di conseguenza, è parso evidente l’errore della Ctr che ha considerato insufficiente l’elemento della sproporzione dei costi addotto dall’ufficio, quando in realtà sarebbe spettato al contribuente, per liberarsi, dimostrare l’esistenza e l’inerenza dei costi sostenuti.

Fonte: Agenzia delle Entrate

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