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Società immobiliare non operativa se gli affitti sono inferiori agli Omi

Risposta a interpello 53/2024: non sufficienti canoni inferiori ai presunti seppure allineati al mercato. Irrilevante che il valore degli immobili sia crollato rispetto al costo fiscale

Al fine di disapplicare la disciplina degli enti non operativi nei confronti di società immobiliari con canoni non congrui, non è sufficiente dimostrare che il valore di mercato dei fabbricati è largamente inferiore al loro costo fiscale. Lo afferma l’agenzia delle Entrate nella risposta a interpello 53/2024. Per supportare l’esistenza di situazioni oggettive che hanno impedito il conseguimento di proventi congrui, occorre documentare che i canoni praticati sono almeno pari a quelli risultanti dai valori Omi. Neppure è sufficiente il fatto che la società non sia utilizzata come “schermo” per l’intestazione di beni che restano nella disponibilità dei soci.

La risposta 53/2024 evidenzia come le disposizioni in materia di società di comodo siano divenute del tutto anacronistiche, arrivando a colpire strutture, come le imprese di locazione immobiliare, che non superano il test di operatività per l’impossibilità di realizzare proventi allineati a quelli risultanti dalle percentuali di legge. È dunque necessario che si ponga mano rapidamente, come previsto dall’articolo 9 della legge 111/2023, a una completa revisione della disciplina, con l’introduzione di nuovi parametri che siano in grado di “stanare” tutte e solo le società senza impresa.

L’interpello riguarda una società di gestione immobiliare che possiede negozi in un centro commerciale, in parte rimasti sfitti e in parte locati a canoni inferiori a quelli risultanti dalla applicazione dell’articolo 30 della legge 724/1994. La società ha chiesto alle Entrate la disapplicazione della normativa sugli enti di comodo, invocando la sussistenza di situazioni obiettive che hanno impedito il superamento del test dei ricavi minimi. Il primo motivo è che i valori economici degli immobili sono crollati a un importo pari a un quinto del costo storico. Sul punto, la società evidenzia che l’elevato costo fiscale gonfia il reddito minimo presunto (provocando una risposta negativa da parte del Fisco), senza evidenziare il vero problema a monte e cioè che sono i ricavi presunti a essere clamorosamente sovrastimati.

Quanto alla esistenza di punti vendita sfitti, l’Agenzia risponde che non viene adeguatamente dimostrato il legame con situazioni di crisi straordinarie e imprevedibili e che neppure vengono documentate le attività svolte per procurare nuove locazioni.

Disco rosso, infine, all’esistenza di canoni che, pur se inferiori a quelli presunti, sarebbero allineati al mercato: manca la dimostrazione che essi sono non inferiori a quelli Omi.

Fonte: Il Sole 24ORE

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