Le spese sostenute dai cosiddetti fashion influencer per l’acquisto di capi d’abbigliamento di vario tipo e genere, utilizzati anche per la partecipazione a specifici eventi e/o serate promozionali, possono essere dedotti nella misura del 50% in base all’articolo 54 del Tuir: sono spese da considerarsi come promiscue. Queste le conclusioni raggiunte dai giudici della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia nella sentenza n. 468 del 2024 (presidente Sacchi, relatore Sciurpa), depositata il 12 febbraio scorso.
Il caso
La vicenda ha visto coinvolta una giornalista, fashion influencer ed ex direttrice di una rivista, alla quale era stata contestata la deduzione delle spese da questa sostenute per:
– l’acquisto di capi d’abbigliamento di vario genere;
– le spese di viaggio;
– le spese “pratiche auto”.
Secondo gli uffici dell’amministrazione finanziaria, infatti, le spese sostenute dalla contribuente si sarebbero dovute considerare non inerenti all’attività professionale da questa svolta – individuata nella professione di giornalista – e in quanto tali indeducibili.
La decisione
La sentenza può essere inquadrata tra le prime pronunce della giurisprudenza di merito in cui i giudici riconoscano la figura dell’influencer in materia tributaria. I giudici di Milano, infatti, riformando la pronuncia di primo grado, hanno riscontrato un errore qualificatorio da parte dell’agenzia delle Entrate e dei giudici di primo grado: piuttosto che svolgere la «semplice attività di giornalista», la contribuente si sarebbe dovuta qualificare quale vera e propria «influencer nel campo dell’immagine e della moda».
Il diverso inquadramento professionale, spiegano i giudici, avrebbe permesso di trattare le spese sostenute dalla contribuente (e in particolare quelle relative al vestiario di importo vicino ai 150mila euro) in modo differente. Il vestiario, infatti, per un influencer, continuano i giudici, costituisce «parte integrante del personaggio e dell’immagine che viene personalmente spesa». In altri termini, l’acquisto di vestiario di vario tipo e genere dovrebbe potersi considerare attività strettamente collegata alla professione di influencer e, in quanto tale, costo inerente.
Inerenza, spiegano i giudici, da doversi apprezzare «attraverso un giudizio qualitativo, scevro dai riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti (…) un giudizio quantitativo, e deve essere distinta anche dalla nozione di congruità del costo, anche se l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rivelatori del difetto di inerenza» (si veda la Cassazione 27786/2018).
Il criterio dell’inerenza
In definitiva secondo i giudici di secondo grado le spese – riconducibili al vestiario – sostenute dalla contribuente influencer si sarebbero dovute considerare inerenti e, di conseguenza, deducibili al 50%, non essendo stata fornita adeguata prova dell’uso esclusivo dei capi d’abbigliamento per attività solo professionali (ad esempio spese promiscue).
Discorso diverso, invece, per le spese di viaggio e quelle per «pratiche auto» le quali non sono state considerate inerenti poiché i generici documenti offerti non hanno permesso «in alcun modo di ricondurle all’attività» di influencer.
La sentenza in commento riveste particolare importanza per il settore poiché, proprio come la sentenza n. 219 del 15 maggio 2023 pubblicata dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte per il caso “Cristiano Ronaldo”, accende una luce sul mondo degli influencer e, in particolare, sulla loro attività social e di sfruttamento del diritto di immagine.
Fonte: Il Sole 24ORE